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IL PASSATO RIMOSSO. I "fatti di Valdottavo" del 1921: considerazioni sull'oblio della storia e su 100 anni di verità controverse.


I FATTI DI VALDOTTAVO DEL 1921:
100 ANNI DI VERITA’ CONTROVERSE
di Gabriele Brunini


Un giorno di maggio del 2018 sono andato alla Biblioteca Comunale e ho trovato una giovane ragazza, studentessa della scuola media, che cercava tra i faldoni dell'archivio storico notizie sui "fatti di Valdottavo" del 22 maggio 1921, dove era coinvolto un suo antenato che, come ho potuto appurare, era il padre della sua bisnonna Celide Giannarini, che viveva a Borgo a Mozzano in viale Italia, che ho conosciuto. E’ stata questa un’occasione per ripensare a quell'episodio, tragico, conosciuto come “l’eccidio di Valdottavo” che, nel corso di cento anni, è stato oggetto di diverse letture, a seconda che fosse visto "da destra o da sinistra". Celebrato con enfasi durante il ventennio dopo la caduta del regime fascista, quell’episodio è stato via via dimenticato; molti non lo ricordano, i più non ne hanno mai sentito parlare. Degli attori di quei fatti non è stato facile reperire notizie e tantomeno le foto, se non estrapolandole da qualche raccolta collettiva di aderenti al fascio che venivano stampate durante il regime. Dei tre condannati ho potuto reperire le foto solo di Amedeo Ramacciotti, mentre non mi è stato possibile trovare quelle di Cesare Della Nina e di Achille Giannarini. Di quest’ultimo, con rammarico, ho avuto il rifiuto di alcuni familiari alla consegna della foto. A 100 anni da quei fatti, una verità vera e condivisa, ancora, non è emersa.
Ho pertanto voluto approfondire l'argomento, raccogliendo documenti e testi scritti di vari autori, facendo in premessa alcune riflessioni personali, come quelle che seguono, a riguardo non solo dei “fatti di Valdottavo, ma anche di altri episodi della nostra storia locale che sono stati dimenticati, per una sorta di oblio collettivo, che mi è piaciuto definire come: “il passato rimosso”.


PREAMBOLO


IL PASSATO RIMOSSO: considerazioni sul cosiddetto "eccidio di Valdottavo" del 1921 e su altri fatti dimenticati.

La domenica 22 maggio 1921, nel pomeriggio, si tenne a Valdottavo una cerimonia importante al teatro Colombo: la fondazione della sezione del Fascio. Da Lucca arrivarono personaggi importanti del combattentismo, che saranno oratori della giornata. Un gruppo di fascisti, come usava a quel tempo arrivò dalla città a bordo di un camion. Al termine della manifestazione, nel tardo pomeriggio, il camion dei fascisti ripartì alla volta di Lucca. Dopo poco aver passato il ponte della Celetra l'autocarro venne centrato in pieno da molti massi fatti precipitare dall'alto del monte "Elto". Un macigno particolarmente grosso, battendo su una roccia sporgente per la china del monte, fece una parabola e piombò sul veicolo. Vi furono due morti, gli studenti universitari lucchesi Gino Giannini e Nello Degl'Innocenti, quattro feriti gravi e altri feriti leggeri, tra i quali anche il capo indiscusso del fascio lucchese, Carlo Scorza, che era stato uno degli oratori intervenuti al teatro e che viaggiava a bordo del camion.

L'episodio passato alla storia come “l’eccidio di Valdottavo” del 1921, mi ha sempre incuriosito; ma anch’io mi sono adeguato al silenzio che, da molto tempo, è calato su quell' episodio; silenzio rotto solo da rare uscite di qualche storico, spesso su testi specializzati, quasi sempre ispirate al conformismo, che rende tutto più facile se si attribuisce la colpa ai “vinti”.

Ho voluto così riflettere su questa sorta di oblio della storia e sul "passato rimosso", termine che mi è piaciuto mutuare dal giornalista/scrittore Pietrangelo Buttafuoco. Ho cercato notizie e testi che parlavano del grave fatto di sangue, avvenuto in un periodo storico particolare, immediatamente successivo al “biennio rosso” (1919/1920), quando la contrapposizione violenta tra socialisti e comunisti da una parte e fascisti e nazionalisti dall’altra, produsse tante vittime, in entrambi gli schieramenti, spianando la strada alla “marcia su Roma” del 28 ottobre 1922 ed alla presa del potere da parte del Partito Nazionale Fascista (P.N.F.).                                                                      

Per confermare la tesi del passato rimosso ho voluto rileggere anche altri episodi, avvenuti sul nostro territorio, che sono sconosciuti ai più e sono caduti nell’oblio più o meno totale.
Dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso, e per circa vent’anni, sono stato attivamente impegnato in politica e frequentavo con una certa assiduità  il paese di Valdottavo, dove esisteva una delle poche sedi del MSI (Movimento Sociale Italiano), partito a cui appartenevo e di cui sono stato il rappresentante nel consiglio comunale di Borgo a Mozzano a partire dal 1975. La sezione era situata proprio davanti al Teatro Colombo. Gli iscritti al MSI, all’epoca,  erano numerosi nella Valle d’Ottavo  e  molti di loro  avevano vissuto il periodo del  regime, gli anni del consenso, gli anni complessi e tragici della guerra, della guerra civile e del dopoguerra. Tanti di loro avevano vissuto le tensioni e le contrapposizioni forti, spesso fortissime, che si erano create tra fascisti e antifascisti, come tra comunisti e anticomunisti, che avevano determinato divisioni profonde addirittura nelle famiglie. Durante le riunioni mi capitava di ascoltare i racconti degli iscritti più anziani, che difficilmente entravano nei dettagli degli avvenimenti locali o delle storie che avevano vissuto in prima persona. Forse, inconsciamente, cercavano di rimuovere i ricordi dei dolori vissuti  e preferivano non parlare degli episodi, talvolta tragici, di cui erano stati protagonisti, spesso loro malgrado.

Anche i “fatti di Valdottavo” del 22 maggio 1921 subirono la sorte dell’ oblio, ma non solo quelli.

Perfino l’ episodio, gravissimo, avvenuto il  13 settembre 1944 a Partigliano, quando gli abitanti del paese rischiarono di essere sterminati dai nazisti,  in una delle tante inutili e incredibili stragi che  in quella terribile estate del ‘44 insanguinarono  contrade e paesi della Toscana e non solo, era sconosciuto ai più e veniva ricordato solo da coloro che avevano vissuto quei momenti. Ne è prova la lapide in ricordo di quei  tragici fatti, che  fu posta a Partigliano solo nell’anno 2006 dal Sindaco Francesco Poggi. Protagonista del salvataggio di quella comunità fu il prof. Silvio Ferri, uomo coraggioso e di grande cultura, che con il suo intervento autorevole, aiutato dalla conoscenza della lingua tedesca, riuscì a convincere il comandante delle truppe naziste a non infierire sulla popolazione e desistere da possibili rappresaglie. Silvio Ferri era il padre di Claudio, insegnante e storico, che fu consigliere attivo ed autorevole nel mio primo mandato di Sindaco (dal 1995 al 1999), addirittura come capogruppo di maggioranza; Claudio non mi parlò mai di quell’episodio che aveva visto suo padre come attore e mai mi chiese di valorizzarne il ricordo, come di certo avrei volentieri fatto.

Un altro episodio rimasto nell'oblio è quello della morte di Renato Giorgi, di Anchiano. Il Giorgi era stato Carabiniere Reale ed a tutti era nota la sua fede fascista. Nel quindicesimo anniversario della "marcia su Roma", il 28 ottobre 1937, appena ventottenne, Renato fu trovato morto nei boschi di Anchiano e molti ebbero la certezza che fosse stato ucciso, proprio per la sua fede politica. Il "santino" funebre scritto nell'occasione dei suoi funerali recita: "Fatale e cruda venne la morte. Tu Renato hai piegato la tua, ancora giovanissima e valida vita per sempre. Guarda dal cielo la  tua cara sposa (Anna) la tua tenera bambina (Carla)...affinché nel tuo caro ricordo trovino rassegnazione e conforto - Anchiano, 29 ottobre 1937, anno XVI dell'era fascista".
Le indagini, che sicuramente saranno state svolte, non portarono a niente. Nel paese di Anchiano il nome del possibile assassino continuò ad essere solo sussurrato. Anche in questo caso si preferì  l’ oblio.

Anche il testo di una lapide, ormai scolorita, di una vecchia tomba del cimitero di Chifenti ci pone un interrogativo sulla scomparsa di una persona di quel paese, che era uomo assai in vista e conosciuto. Si tratta di Guglielmo Colombini, "fascista della prima ora", scomparso, "misteriosamente", all'età di 31 anni. Ma lasciamo che, a parlare, sia quella lapide, così come, nel dolore, fu scritta: "Pio Guglielmo Colombini, Capo centuria giovani fascisti, Fiduciario Uff. Collocamento, fascista milite della prima ora, la sera del 2 febbraio misteriosamente scomparso nelle acque del Serchio, 75 giorni dopo fu restituito, sposa madre fratello e parenti inconsolabili lo piangono, amici e camerati lo ricordano, 1905 - 1936". Anche per Colombini, in paese, si pensò ad un regolamento di conti politico, come accadrà un anno dopo per il Giorgi di Anchiano, ma l'oblio sopraggiunse. Secondo l'atto di morte, redatto presso il Comune di Borgo a Mozzano, il corpo del Colombini fu ritrovato in data 19 aprile 1936 in località Piaggione.
 
Anche nella mia famiglia si è cercato di dimenticare. Una sorella di mio padre, la zia Anna Brunini di Oneta, aveva sposato un borghigiano, Torquato Guasperini , che morì nel 1929, dopo pochi anni  di matrimonio, all’età di 27 anni,  lasciando mia zia con un figlio piccolo (Alemanno Guasperini, nato nel 1926). Pochi anni dopo, nel 1931, morì anche un fratello di Torquato, Giordano Guasperini, all’età di 24 anni. Mia zia per mantenere il figlio andò “a servizio” in una famiglia benestante di Vercelli, dove rimase  per tutta la vita; il figlio Alemanno morì nel 1966 per una grave malattia. In casa, da ragazzo, sentivo “sussurrare” che i due giovani fratelli Guasperini erano morti in conseguenza di un agguato compiuto contro di loro, perché appartenenti al “Fascio” di Borgo a Mozzano. In anni successivi anche l’amico dottor Franco Giusti, in diverse occasioni, mi confermò questo fatto ma, per una sorta di pudore, non gli chiesi mai spiegazioni e dettagli, che oggi non posso dare, né a me né agli altri. 
           
Finita la guerra le fortificazioni della linea gotica, gallerie, trincee, camminamenti e fortini costruiti dall’ottobre 1943 fino all’agosto 1944, erano diventati ricettacolo di rifiuti o rifugi improvvisati per sbandati o, addirittura, per gli assassini della così detta “banda Fabbri”, che seminò paura sui nostri territori nei primi mesi del dopoguerra che usarono una galleria posta alla “polla del fico”, nel territorio di Anchiano, per nascondere dei cadaveri. All'inizio degli anni ’60, allo scopo di eliminarne i pericoli, gli ingressi delle gallerie furono murati e l’accesso interdetto. Solo alla fine degli anni ’90 del XX secolo ( ricordo bene il periodo perché ero Sindaco) si cominciò a lavorare, sollecitati da brave persone di tanta buona volontà, tra Comune e Comunità Montana, per realizzare un progetto di recupero e valorizzazione delle fortificazioni, da è nato il “Comitato Linea Gotica” che tanto si  impegnato e si impegna nei progetti di riscoperta e  valorizzazione dei siti storici, da cui è nato anche il “Museo della Memoria” di Borgo a Mozzano.

Nell'oblio era caduta anche l' uccisione, in uno scontro con i tedeschi, del partigiano  ventottenne Pietro Pistis, avvenuta nel giugno 1944 nei pressi di Borgo a Mozzano, come la morte di Amato Terzini  e di Martina Metalori, uccisi dai tedeschi a Partigliano nel settembre 1944. Anche l'uccisione, ad opera di un soldato tedesco, di Luigi Meconi, mentre si trovava a lavorare, ignaro del pericolo, nella sua vigna, dietro la scuola elementare di Valdottavo, è stata ricordata dalla figlia Maria, sposata Grandi, in un opuscolo dal titolo "27 Settembre 1944, La fine di un incubo", stampato dalla Tipografia Amaducci solo nel novembre 2003.

Un’altra  storia tragica e inquietante è quella avvenuta nei boschi di Motronein località Picchiaia,  nel freddo inverno 1944/1945, sulla quale ho cercato notizie, trovando solo una sorta di “bonaria” omertà. Il paese di Motrone, oggi ricompreso nel territorio del Comune di Borgo a Mozzano, all'epoca dei fatti apparteneva al Comune di Pescaglia. Le poche notizie che sono stato in grado di raccogliere dicono che i coniugi Zanobi e Teresa Lazzari, nel momento del passaggio del fronte, siano stati uccisi da “soldati di colore” e che Teresa sia stata violentata prima di essere uccisa. Il tutto avvenne davanti agli occhi del loro figlio, Alvaro Lazzari, che "impazzi" per quanto aveva visto e fu internato in un istituto fino alla morte. Alvaro, fu trovato dagli abitanti di Motrone, accanto ai genitori uccisi, nel metato di Picchiaia dove la famiglia Lazzari viveva in quei difficili giorni.

Un altro episodio di “passato rimosso” riguarda un borghigiano, assai conosciuto, perché esercitava la professione di geometra in paese. Si tratta di Raffaele Guidugli (o Raffaello), classe 1916, che aderì alla RSI e, catturato dai partigiani, fu fucilato a Piacenza il 1 maggio 1945. Avevo trovato questa notizia facendo ricerche di un amico di mio padre, Gabriele Zamboni, livornese, la cui famiglia aveva una casa a Oneta, dove trascorreva le vacanze. Anche lo Zamboni era stato fucilato a Piacenza, nella stessa data del 1 maggio 1945. Raffaele Guidugli e la moglie Bianca nell’ occasione del loro matrimonio avevano donato una ceramica “robbiana” che, ancora oggi, fa mostra di sé sulla facciata del convento francescano del Borgo. Sapendo che la moglie era viva, qualche anno fa, mi misi in contatto con lei per avere notizie di quella ceramica donata al convento e del marito; ma mi sentì rispondere che le figlie non sapevano come era morto il loro padre e quindi non voleva parlare del passato…

Perfino episodi meno tragici, che potremmo definire “a lieto fine”, come l’ospitalità offerta dagli abitanti di Particelle (Corsagna) a soldati americani, durante il passaggio del fronte, o attestati rilasciati a firma del Generale Alexander per “gratitudine e riconoscenza per l’aiuto dato ai membri delle Forze Armate degli Alleati”, come quello che mi consegnò qualche anno fa Ferminda Giusti di Corsagna, non sono mai stati conosciuti adeguatamente dalle nostre comunità. 
Il passato rimosso ha riguardato perfino figure assai conosciute della comunità, di cui si è scoperto, solo dopo sessanta o settanta anni, e lo dico con estremo rispetto, la loro partecipazione alla resistenza, o il ruolo di partigiano, addirittura dopo la loro scomparsa. Peccato per loro che non hanno potuto meritare i giusti riconoscimenti in vita.

Chissà quanti altri episodi, che non conosco, sono accorsi nel periodo tra le due guerre mondiali e nel corso dell’ultimo conflitto, che ebbe anche il tragico epilogo di una guerra civile tra italiani… 

A Borgo a Mozzano, come in tanti altri luoghi, si preferì non ricordare il passato. Dopo il “Sindaco della liberazione”, che fu Antonio Tonelli, esponente del CLN, i successivi mandati furono affidati a uomini della Democrazia Cristiana, che erano persone importanti della comunità borghigiana, “notabili” di paese, ma che tali erano stati anche negli anni del “regime”; mi riferisco in particolare a Giuseppe Bacci di Corsagna, più volte Podestà e poi esponente della Democrazia Cristiana, o al geometra Aldo D’Olivo, che fu Sindaco dal 1951 al 1961. (1)

Nel decennale della liberazione, che al Borgo fu ricordato il 27 settembre 1954, venne apposta sul palazzo comunale, in piazza “XX settembre”, una lapide che, come ho più volte detto anche in cerimonie ufficiali, rappresenta un “inno alla libertà” e un contributo alla “pacificazione”.
Ecco il testo: “In questa piazza - nel decennale della liberazione - il popolo esalta la più bella conquista – LA LIBERTA’ – Dio e volontà degli uomini – la conservino ai posteri – a conforto e memoria dei suoi martiri”.  

Nei dieci anni trascorsi dall’arrivo degli Alleati sul nostro territorio la vita era ripresa, con fatica, ma con tanta speranza. Più o meno tutti erano tornati ai propri lavori e alle proprie occupazioni, molte famiglie piangevano i morti o dispersi in guerra, soprattutto nella campagna di Russia. Perfino coloro che avevano aderito alla RSI ed erano andati “al nord”, passati sotto le forche caudine delle epurazioni, rientrarono tutti nei benefici dell’amnistia del 22 giugno 1946 (ministro guardasigilli era Togliatti) e furono reintegrati nei ruoli e nei posti di lavoro. Rimanevano le divisioni, perfino all’interno delle famiglie, ma i più preferirono rimuovere il passato. E' un pò quello che racconta Edoardo De Filippo in una celebre commedia, messa in scena subito dopo la liberazione, diventata un film nel 1950 col titolo “Napoli milionaria”: il protagonista, ritornato dalla guerra, vuole raccontare a tutti quelle che ha visto, ma tutti continuano a ripetergli che “la guerra è finita”, affermando, con questa frase, il desiderio degli italiani di voltare pagina, di guardare al futuro e di “rimuovere il passato” fatto di dolore e tristezze.

Ma torniamo ai “fatti di Valdottavo del 22 maggio 1921” e all’uccisione di due giovani fascisti lucchesi, entrambi studenti universitari, che divennero “i martiri di Valdottavo”. A loro il regime dedicò luoghi simbolo, come il grande piazzale antistante porta S. Maria, a Lucca, che divenne “piazzale martiri di Valdottavo”, oggi ribattezzato “piazzale martiri della libertà”. Di certo nell’immediatezza degli eventi, in un periodo in cui le violenze si susseguivano, l’episodio destò grande scalpore, soprattutto al livello provinciale e la cosa “bruciò” ai fascisti e agli antifascisti, che si fronteggiavano senza esclusione di colpi, anche in questo fazzoletto di terra, tra Lucca e Borgo a Mozzano che vedeva la presenza di due importanti realtà industriali, come lo iutificio del Balestreri a Ponte a Moriano e il cotonificio Croce a Piaggione. Appena il 25 marzo di quell’anno era stato freddato con un colpo di pistola, nei pressi di Saltocchio (Ponte a Moriano), il ventiduenne Tito Menichetti, fascista pisano, rimasto a guardia di un camion in avaria; e subito dopo l’agguato di Valdottavo, il 24 maggio, era stato aggredito, da parte di un gruppo di fascisti lucchesi, un casellante di Saltocchio, Esmeraldo Porciani, di fede antifascista, che morirà, per le conseguenze della violenza, il mattino del 25 maggio all’ospedale di Lucca. Di entrambi gli episodi furono identificati e processati i responsabili. Anche per i massi fatti precipitare sul camion di ritorno da Valdottavo, furono svolte indagini da parte dei “Carabinieri Reali” che, già pochi giorni dopo l’eccidio”, identificarono i possibili esecutori e fiancheggiatori. Ci fu il processo e ci furono condanne, anche pesanti, che divisero ulteriormente la comunità di Valdottavo tra colpevolisti ed innocentisti, come sempre accade. Degli indagati, degli arrestati e dei condannati per l'attentato, si è parlato davvero poco. In ultimo le condanne arrivarono solo per tre persone. Una, che scontava l’ergastolo, morì durante la detenzione, le altre due, al momento delle scarcerazioni, avvenute nel 1932 e nel 1936, tornarono nel loro paese e ripresero la vita di sempre; sia pure subendo, come ricordano alcuni testimoni che ho incontrato, umiliazioni e vessazioni dai fascisti più intransigenti che non perdonavano l’attentato del ’21. Sull'episodio, almeno fino ad oggi, non ci sono mai state significative strumentalizzazioni politiche, come avrebbe ben potuto avvenire. Una delle ultime citazioni di quei fatti lontani è stata fatta, in tempi recenti, all’interno di un romanzo, scritto dall’amico Roberto Andreuccetti, di Valdottavo, pubblicato nel novembre 2020. Sulla copertina del romanzo appare la foto del monumento eretto sulla strada Lodovica, poco dopo il ponte della Celetra, dove caddero i massi dell’attentato. La foto è quella che mi fu data, solo per la scannerizzazione, dal geometra Carlo Radini, di Valdottavo, grande appassionato di storia del suo paese, che da tempo ho pubblicato sul web. Il Radini conservava quell’originale insieme a tante altre foto e documenti di cui mi aveva parlato e che, alla sua morte, nonostante i tentativi, non sono riuscito a recuperare.

A cent’anni dal 22 maggio 1921 “l’eccidio di Valdottavo” rimane un episodio fortemente controverso, dove i racconti e le interpretazioni sono fortemente condizionate, come spesso accade, dalle convinzioni e dalle appartenenze ideologiche di coloro che scrivono. Sicuramente anch’io non sfuggirò a questo condizionamento ma, dopo 100 anni, quando abbiamo perso l’opportunità di avere i contributi e i ricordi dei diretti interessati, attori o testimoni degli eventi, voglio provare ad elencare e far conoscere i contributi e gli scritti conosciuti e tutto quanto può essere utile per la ricerca di una possibile verità.
Gabriele Brunini – maggio 2021
 

Note: (1) Il Sindaco della Liberazione”, Antonio Tonelli, di Diecimo, si insediò il 2 ottobre 1944 e ricoprì la carica fino alle elezioni del 1946. In quell'anno fu eletto il borghigiano Vincenzo Barsi, rimasto in carica fino al 1951, quando fu eletto Aldo D’Olivo, anche lui di Borgo a Mozzano, che rimase in carica fino al 1961.


INTRODUZIONE


“L’ECCIDIO DI VALDOTTAVO”: CONTRIBUTI E DOCUMENTI

Sull’episodio, controverso, che sto trattando, ho cercato di raccogliere documenti, contributi e testimonianze senza fare ad essi commenti, affidando poi al capitolo finale delle conclusioni il mio giudizio. Di seguito l’elenco dei contributi presentati.

CAPITOLO 1 - Per prima cosa ho valutato il documento che ritengo fondamentale: il Rapporto dei Carabinieri Reali, della Divisione di Lucca, che fu fatto al Prefetto della città pochissimi giorni dopo i fatti, avvenuti il 22 maggio 1921 “a Cava Barandi”. Il rapporto, redatto da un Capitano della Divisione è datato 27 maggio 1921 e un timbro “a datario” attesta che fu ricevuto dalla Prefettura in data 28 maggio.

CAPITOLO 2 - Ho poi consultato la monumentale opera di Giorgio Alberto CHIURCO dal titolo "STORIA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA" - Vallecchi Editore Firenze - edita nel 1929, che qualche anno fa acquistai, in una edizione originale dalla Libreria Pera di Lucca. A pag. 309 del III volume un capitolo è intitolato "L'orrore di Valdottavo (Lucca)". Il testo riporta l’episodio, commemora i morti e cita il nome dei feriti, ma non dà notizia degli arresti che furono fatti a Valdottavo. Cita invece i nomi di alcuni “capeggiatori dell’imboscata” che furono arrestati a Ponte a Moriano. Riporta poi i nomi di tutti i fascisti che “parteciparono all’impresa di Valdottavo” e che erano a bordo del camion su cui piovvero i massi.

CAPITOLO 3 - Un’ altro contributo importante è il resoconto del Giornale “L’intrepido”, settimanale dei Fasci di Combattimento di Lucca e Pisa, uscito come numero straordinario il 25 maggio 1921, a poche ore quindi dall’attentato al camion che trasportava i fascisti.

CAPITOLO 4 - Un grande contributo ci arriva anche da un lungo articolo di Nicola Laganà, storico lucchese, pubblicato su "Quaderni di Farestoria"  Anno XIII – N. 2-3 maggio - dicembre 2011, rivista dell' Istituto Storico della Resistenza e dell'età Contemporanea in Provincia di Pistoia. Il titolo dell’articolo, formato di diversi capitoli, è il seguente: I fatti di Valdottavo: Un esempio della strategia della tensione applicata da Carlo Scorza nella Val di Serchio. Come appare chiaro, il contributo di Laganà non si limita all’episodio del lancio di massi sul camion fascista che rientrava da Valdottavo a Lucca, ma inquadra l’episodio nel contesto storico dell’epoca, cita episodi collaterali a quello del 22 maggio 1921 e descrive comportamenti e atteggiamenti del capo indiscusso del fascismo lucchese che, all’epoca dei fatti e fino all’inizio degli anni ’30, era Carlo Scorza.

CAPITOLO 5 - Anche il professor Giuseppe Pardini, docente universitario lucchese, oggi professore associato di Storia contemporanea all'Università degli Studi del Molise, si è occupato della nascita e dell’affermazione del fascismo nella provincia di Lucca, pubblicando i suoi interessanti elaborati sulla rivista “Documenti e Studi” rivista semestrale dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea. In questi studi ha trattato anche l’argomento dell’attentato di Valdottavo del maggio 1921.

CAPITOLO 6 - Collegato proprio al personaggio “Carlo Scorza”, ho scelto di citare il volume di Carlo Rastrelli dal titolo “Carlo Scorza. L’ultimo gerarca” (Mursia Editore 2010). Rastrelli, nato a Napoli nel 1959, vive a Mantova, dove lavora come dirigente d’azienda nel settore delle risorse umane. Ricercatore e storico, collabora da anni con riviste specializzate nel campo della storia militare e dell’uniformologia. Il suo libro è la prima biografia dell’ultimo segretario del Partito Nazionale Fascista e nel testo l’autore risponde anche ad una specifica domanda sui fatti di Valdottavo.
 
CAPITOLO 7 – In questo capitolo riporto una descrizione dei fatti dello storico Giacinto Reale, che ha dedicato i suoi studi ai primi anni del fascismo. Direi che si tratta di una rievocazione “alternativa” a quella dello storico Nicola Laganà, pubblicata al capitolo 5. L’intervento di Giacinto Reale testimonia quanto sia ancora controversa questa pagina di storia.
 
CAPITOLO 8 - Navigando su internet ho trovato un elenco degli  "oltre 800 fascisti che - tra il 1919 ed il 1932 - furono trucidati o uccisi dagli antifascisti" e, in questo elenco risultano anche i due morti di Valdottavo.
 
CAPITOLO 9 - Non poteva mancare tra la documentazione il piccolo libro che, ad un anno dai fatti del maggio 1921, fu dato alle stampe da Carlo Scorza, ras dei fascisti lucchesi, presente sul camion oggetto dell’attentato. Il testo si intitola "NOSTRI MORTI", Lucca - Tipog. Edit. G. Giusti - 1922, ma nell'interno lo Scorza aggiunge un sottotitolo: "Ricordi". Si tratta, come si può ben capire di una ricostruzione puntigliosa degli avvenimenti, arricchita dai  commenti di uno dei partecipanti.

CAPITOLO 10 - Tra i documenti che fanno riferimento ai fatti di Valdottavo c'è anche la fotocopia di una lettera anonima, che uno dei fascisti più vicini a Scorza avrebbe scritto al Duce. La fotocopia porta delle sigle e dei numeri di protocollo, e, stranamente, reca anche il timbro dell' Istituto Storico della resistenza di Lucca.
 
CAPITOLO 11 - Anche il prof. Claudio Ferri, di Valdottavo, personaggio molto attivo nella vita culturale lucchese, con al suo attivo molte pubblicazioni specialistiche di storia antica, ha trattato l'argomento circa "i fatti criminali del 22 maggio 1921 a Valdottavo". Lo ha fatto in suo libro dal titolo "Fra Lucca e Borgo a Mozzano: Valdottavo dalle origini ai giorni nostri", pubblicato nell'aprile 2005 per i tipi della Tipografia Tommasi di Lucca .

CAPITOLO 12 - Tra le testimonianze che ho trovato c’è anche quella di Silvano Zanarelli, pittore e scultore di Valdottavo, che ricorda il momento della distruzione del monumento ai “Martiri di Valdottavo”, che era stato realizzato nel 1926, sulla strada Lodovica, nel luogo esatto dell’eccidio. La distruzione del monumento avvenne dopo qualche giorno dal passaggio del fronte, più o meno ai primi di ottobre 1944. La nicchia scavata nel costone del monte è ancora ben visibile.

CAPITOLO 13 – Di recente  ho conosciuto e letto il libro di Fulvetti Gianluca e Ventura Andrea, Antifascisti Lucchesi nelle carte del casellario politico centrale, che riporta le biografie di alcuni dei condannati per i fatti di Valdottavo, aggiungendo elementi utili alla presente ricerca.

CAPITOLO 14 - Alla fine del 2020 l’amico scrittore Roberto Andreuccetti, di Valdottavo, ha pubblicato un suo romanzo dal titolo “L’UOMO SENZA SORRISO”, Tralerighe Libri Editore, che ha ambientato nella sua Valle d’ Ottavo nei primi anni ’20 del XX secolo. E così anche l’attentato del 22 maggio 1921 e diversi fatti storici collaterali a questo, tornano a vivere, risvegliando anche nell’autore, gli interrogativi di sempre. Ho ritenuto che anche questo potesse essere un utile contributo,
 
CAPITOLO 15 – Interessante è un racconto del Valdottavino Prof. Tullio Bianchini, pubblicato in un volumetto dal titolo “Quando canta la civetta”, pubblicato nel 1987, dopo la morte dell’autore.

CAPITOLO 16 - Le conclusioni saranno di sicuro la parte più delicata, ma non mi sono sottratto dal farle. Comunque saranno lette e giudicate, mi auguro siano un contributo alla ricerca di una verità, che per 100 anni è rimasta controversa.


Capitolo 1

I FATTI DI VALDOTTAVO DEL 1921 NEL RAPPORTO DEI CARABINIERI REALI

Un documento che ritengo fondamentale per trattare l’episodio storico è il rapporto che i Carabinieri Reali, della Divisione di Lucca, fecero al Prefetto della città, pochissimi giorni dopo i fatti, avvenuti il 22 maggio 1921 “a Cava Barandi”. Il rapporto, redatto da un Capitano della Divisione è datato 27 maggio 1921 e un timbro a datario attesta che fu ricevuto dalla Prefettura in data 28. Ritengo fondamentale il rapporto perché è impossibile, a mio avviso, che nello spazio di pochissimi giorni il rapporto dei Carabinieri e le relative indagini possano  essere state condizionate e stravolte da un Carlo Scorza coinvolto, fisicamente ed emotivamente, nel grave fatto di sangue, che aveva visto la morte di due giovani studenti universitari (Gino Giannini e Nello Degl’Innocenti) e la mutilazione di Aldo Baralla, oltre al ferimento di altri fascisti che erano sul camion della tragedia.

Ecco dunque il testo integrale del rapporto dei Carabinieri, di cui pubblico le copie in originale:
Ill.mo Sig. Prefetto di Lucca - Mi pregio riferire alla S.V. Ill.ma a seguito del foglio n. 253, del 23 and. Che dalle indagini state praticate in merito al delitto in oggetto, vennero a emergere sui seguenti individui di Valdottavo indizi di partecipazione al delitto stesso o sospetti per altro motivo, per cui è stato proceduto al loro arresto. 1°) Giancarini (Giannarini) Achille di Innocenzo di anni 31. E’ accusato da Ramacciotti Giuseppe di aver detto in giorno non precisato nel caffè di Ida Bianchini in Valdottavo “se vengono i fascisti gli faremo una scarica di pietrate”; sarebbe inoltre stato visto dal Ramacciotti mezz’ora prima del fatto salire per un sentiero sul poggione delle Calatra (Celetra) in direzione del luogo ove avvenne l’imboscata. Si è allontanato dal Teatro  di Valdottavo ove fu tenuto il comizio subito dopo i discorsi dei due primi oratori. 2°) Ramacciotti Giuseppe di Michele d’anni 36. Un giorno parlando con certo Grandi Giuseppe, che gli disse scherzando che se fossero venuti i fascisti lo avrebbero ammazzato rispose: “ci armeremo anche noi in una quarantina. Vogliamo vedere se siamo buoni  a difenderci”. Il medesimo è caduto in molte contraddizioni. Indiziato anche lui. 3°) Tassani Nello di Carlo, d’anni 23. 4°) Andreuccetti Alberto di Albino, d’anni 22. Si sono ambedue recati  a Domazzano il giorno 22 prima del fatto. Caduti in contraddizioni. Non hanno saputo spiegare esaurientemente la loro presenza colà. 5°) Tassani Alfredo di Carlo, d’anni 18. Si è recato a Domazzano poco dopo il fratello Nello suddetto. Non ha saputo esaurientemente spiegare la sua presenza colà. Cadde in varie contraddizioni. 6°) Tomei Omero di Silvio, di anni 23. E’ nepote del Ramacciotti. Potrebbe fornire indizi ma si è mostrato (la frase non è completata) 7°) Mezzetti Antonio fu Felice di anni 23. 8°) Bertolacci Angelo di Carlo di anni 23. Ambedue si sono recati circa le 13 a pescare lungo il fiumicello che viene da Varano al Ponte della Celetra da cui è possibile vedere il luogo donde vennero lanciate le pietre. Caduti in molte contraddizioni. Non si esclude abbiano potuto segnalare dal basso il passaggio del Camion. 9) Tosi Giuseppe di Oliviero di anni 18. 10) Tosi Italo di Oliviero di anni 21. Sono dal Ramacciotti predetto accusati di aver ricevuto il mercoledì prima del fatto due comunisti di Ponte a Moriano coi quali si sarebbero trattenuti fino alle 24. Caduti in contraddizioni. Tosi Italo si è recato al Piaggione verso le 15 del 22 andi, dichiarò di essersi recato presso tale Bernocchi Prezioso. Non giustificata sufficientemente la sua presenza colà e presso l’amico. 11°) Filippi Stefano fu Ferruccio, d’anni 28, detto il “Pisa”. 12°) Salsini Natale di Eugenio, danni 30. Mentre i fascisti si trovavano in Valdottavo erano in fondo al paese nell’Osteria di Vittoria Lumini che trovasi sulla strada, di fronte al poggione della Celetra. Riscontrate contraddizioni fra le loro dichiarazioni e quelle della padrona del locale. Avrebbero visto, stando nell’Osteria, passare il Camions coi fascisti di ritorno e pronunziato tra loro la frase: “è andato via”. Il Salsini Natale a certa Italia Perfetti (forse Profetti)  che incontratolo pel paese gli domandò come stesse gli rispose: “Io sto bene ma qualcuno potrebbe star male”. Il Filippi è amico inseparabile del Salzini. Certo Rela Dalmazi, che poi l’ha negato, avrebbe detto che ambedue erano entrati trafelati circa le 19 in detta osteria Provenienti dal basso. 13°) Gori Augusto fu Luigi,
d’anni 34, detto il “Pisa”, è indicato dalla voce pubblica in rapporto col Salzini e il Filippi. I suddetti vennero arrestati nella notte dal 22 al 23 e nella giornata del 23 andi. Il Salzini Natale sfuggito alle ricerche nella notte 22 e 23 andi si presentò all’Arma di Borgo a Mozzano alle ore 17 del giorno 23. Sono stati rinchiusi nelle Carceri di Lucca a disposizione dell’Autorità Giudiziaria. Si sta attualmente ricercando certo Luppio Umberto detto lo “seramisco” pel suo mestiere, girovago, che Vittoria Lumini dice che, entrato tutto scalmanato nel suo locale verso le 19, dopo che si era saputo del delitto, e che dopo aver gironzolato per la stanza se ne andò senza proferir parola e senza chiedere neanche da bere, tanto che la medesima ebbe subito un po’ di sospetto. Il medesimo transitò il mattino del 23 per Ponte a Moriano, Vinchiana, Piaggione per località imprecisata. La sera in cui avvenne il delitto di cui trattasi, poco distante da Ponte a Moriano, venne trovata la strada sbarrata da grossi sassi e dal V.Commissario Dott. Sergio Pannunzio, come dal Comandante la Stazione di Ponte a Moriano si ritenne che tale sbarramento fosse stato fatto per preparare un’altra imboscata e vennero pertanto tratti in arresto i sottonotati 14 individui di Ponte a Moriano che sono i comunisti ed anarchici più in vista del luogo. 1°) Mazzi Francesco di Ermenegildo, di anni 28,  nato a Saltocchio domiciliato a S. Stefano di Moriano. 2°) Guidotti Giuseppe (Teocle) di Angelo, nato il 1897, residente a Ponte a a Moriano. 3°) Dinelli Ivo di Raffaello, di anni 24, nato a Ponte a Moriano ivi domiciliato. 4°) Bernacchi Enrico di Alberto, di anni 29, nato a Pescia e residente a S. Giusto di Brancoli. 5°) Cresci Alberto (2) di Antonio, di anni 36, nato a Viareggio e residente a Ponte a Moriano. 6°) Petrucci Carlo (2) fu Annibale, di anni 39, nato a Viareggio e residente a Ponte a Moriano. 7°) Malerbi Luigi (2) fu Giovanni, di anni 55, nato ad Aiaccio e domiciliato in Ponte a Moriano. 8°) Dinaso Oreste fu Giuseppe, di anni 34, nato a Bagni S. Giuliano, domiciliato a S. Stefano. 9°) Chiavacci Alberto fu Marcello, di anni 29, nato a Pescia, domiciliato a Saltocchio. 10°) Torricelli Carlo fu Ambrogio, di anni 49, nato a Savona, domiciliato a Saltocchio. 11°) Casanova Raffaele fu Luigi, di anni 50, nato a Fagnano domiciliato a Saltocchio. 12°) Venturi Emilio fu Fedele, di anni 54, a Zola Predosa e domiciliato a Saltocchio. 13°) Donnini Pietro fu Goffredo, di anni 31, nato a Ponte a Moriano e domiciliato a Saltocchio. 14°) Donati Guglielmo fu Donizio, di anni 43, nato e domiciliato a Saltocchio. La relazione è firmata da un Capitano dei Reali Carabinieri, per conto del Maggiore Comandante la Divisione.


Note: (2) I nomi di Cresci, Petrucci e Malerbi (antifascisti di Ponte a Moriano) sono riportati anche nel libro di Alberto Chiurco “Storia della rivoluzione fascista”.


Capitolo 2
 
I FATTI DI VALDOTTAVO NELLA MONUMENTALE "STORIA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA"

Ho consultato, sull’argomento, la monumentale opera di Giorgio Alberto CHIURCO dal titolo "STORIA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA" - Vallecchi Editore Firenze - edita nel 1929, che qualche anno fa acquistai, in una edizione originale, dalla Libreria Pera di Lucca. A pag. 309 del III volume un capitolo è intitolato "L'orrore di Valdottavo (Lucca)".
Questo il testo:
22 maggio (1921) - A Valdottavo, piccolo paese a 8 km. da Lucca era giunto un camion di 22 fascisti al comando del cap. Carlo Scorza per la costituzione del Fascio; di ritorno a Lucca il camion, giunto in prossimità delle Cave dette di Sesto e Rivangaglio, da un'altezza di 50 metri a picco sulla strada è fatto bersaglio a 5 o 6 massi ciascuno di vari quintali; un macigno (1) in rincorsa battendo su una roccia sporgente per la china del monte, facendo una parabola,  piombò sul camion e prese in pieno Giannini Gino, stud, univ. in chimica pura, già diplomato in fisic-matematica, nato a Lucca il 12 marzo 1898, ex combattente, e lo maciullò; Degl'Innocenti Nello stud. univ. fu anch'esso colpito al capo e cadde morto sotto il macigno; rimasero feriti Ballerini Felice colpito alla testa dal blocco omicida, Aldo Mandoli, Aldo Baralla, Benedetti Guido e Carlo Scorza; lo chaffeur fermò di colpo la macchina; mentre avveniva tale imboscata, a Ponte a Moriano, presso la località "la Torretta" si stava preparando un altro agguato qualora i fascisti fossero scampati dal primo a Valdottavo. Il vice commissario di pubblica sicurezza Pannunzio potè arrestare i capeggiatori dell'imboscata nelle persone di Petrucci Carlo, Malerbi Luigi e Cresci Alberto (3)

Il libro del Chiurco pubblica, al termine del testo, l'elenco dei Fascisti che parteciparono all'impresa di Valdottavo (Lucca)Nello Degl'Innocenti, ucciso, Gino Giannini, ucciso, Aldo Baralla, ferito, Felice Ballerini, ferito, Aldo Mandoli, ferito, Benedetti Guido, ferito, Carlo Scorza, ferito, Lorenzo Grossi, Renato Benedetti, Pietro Degl'Innocenti, Luigi Matteucci, Vittore Tattara, Vittorio Mandoli, Lelio Mandoli, Gino Grazioli, Girolamo Benesti, Elia Giusti, Alfredo Micheletti, Carlo Marraccini, Carlo Evangelisti, Umberto Davini.
 

Note: (3) I nomi riportati dal Chiurco sono quelli di tre antifascisti di Ponte a Moriano che furono arrestati dai Carabinieri Reali insieme ad altre 11 persone, tutte di Ponte a Moriano e Saltocchio.
 


Capitolo 3

IL RESOCONTO DEL GIORNALE "L' INTREPIDO", SETTIMANALE DEI FASCI DI COMBATTIMENTO, USCITO COME NUMERO STRAORDINARIO IL 25 MAGGIO 1921

E' interessante leggere il numero straordinario del settimanale "L'Intrepido", settimanale dei Fasci di Combattimento di Lucca e Pisa, uscito come "numero straordinario pro famiglie delle vittime" il 25 maggio 1921, appena tre giorni dopo l'eccidio. Nella prima pagina sono riportate le foto di Giannini e Degl'Innocenti ed il titolo è "GLORIA AI MORTI PER LA PATRIA IMMORTALE - MALEDIZIONE PER I VILI ASSASSINI". Sotto le foto c’è il ricordo dei due caduti: quello di Gino Giannini a firma G.P. e quello di Degl'Innocenti a firma di Alfredo Micheletti. E' nel testo del Micheletti che si entra nei fatti accaduti: "...Ed anche ieri (terribile 22 maggio!!) partimmo da Lucca col sorriso sulle labbra e la gioia nel cuore perché troppo era nobile la missione che andavamo a compiere. Mentre i nostri inni salivano al Cielo e contenti accingevamoci al ritorno alla natia città, le belve dall'alto della loro tana, scagliarono il vile ordigno di morte. Il pesante masso, colpì con fragore il camion, e la tua vita assieme a quella di un altro caro nostro compagno, fu barbaramente troncata. Il fratello tuo, accorso desolato al tuo fianco, fece appena in tempo a raccogliere il tuo ultimo sguardo, il tuo ultimo anelito, poi il nero sudario della morte chiusesi su te....".
Nelle pagine interne del giornale c' è poi un resoconto dei fatti a firma "Della Maggiora", dal titolo "LA GITA DI PROPAGANDA - LA FESTOSA ACCOGLIENZA DI VALDOTTAVO - IL TRAGICO RITORNO", di cui riporterò i passi più interessanti: "Alle 15 di Domenica da fuori Porta Elisa un gruppo di 22 fascisti agli ordini del Segretario Politico, su di un camion, partivano alla volta di Valdottavo. Precedeva il camion una piccola macchina con altri quattro fascisti. Scopo della gita la fondazione di una sezione dei Fasci di Combattimento a Valdottavo, in seguito ad accordi presi coll'esistente Comitato locale. La gita di andata fu una delle più deliziose lungo la via soleggiata fra il verde lussureggiante dei campi e dei monti ed il nastro d'argento delle acque del Serchio operoso. L'arrivo dei gitanti a Valdottavo fu dei più festosi. Il paesello era agghindato a festa. Una gloria di bandiere che dappertutto garrivano al sole primaverile; gli abitanti tutti sulla via principale salutarono con evviva e battimani la piccola schiera dei pionieri che appena giunta si formò in plotone ed al canto di Giovinezza attraversò la via principale del paese fra il generale entusiasmo. Dopo una breve sosta fatta nel caffè "Ritrovo degli amici" i gitanti preceduti dal comitato locale composto dai Signori: Mezzetti Alessandro, Maffei Almiro, Santini Luigi, si diressero al Teatro C. Colombo designato per la riunione di propaganda. Ben presto il teatrino si riempì. Fra gli intervenuti notammo il Dottor E. Giusti, Maestri Pierotti, Mezzetti Marco, Santini Giorgio............Luigi, Semplice Ottavio, Salani Edoardo, Ferretti Oreste e molti altri. Anche molte signore e signorine presero parte alla cerimonia; notammo le signorine Maffei, Leonello e Mezzetti e molte popolane che con vero compiacimento ostentavano un nastrino tricolore che ornava il loro giubbetto. Fattosi un religioso silenzio il Sig. Mezzetti del Comitato locale presentò con acconce parole il fascista mutilato di guerra e decorato con medaglia d'oro Dario Vitali, il quale con parola alata rievocò l'opera del soldato italiano....Prese quindi la parola l'ex combattente Bolognesi Ugo, decorato con due medaglie d'argento, già tenente dei bombardieri. Il fascista Bolognesi trattò molto profondamente la questione religiosa che non può nè deve dissociarsi dall'amor patrio...Trattò anche della necessità della formazione dei sindacati agricoli economici. Ultimo oratore fu il Segretario Politico del Fascio di Lucca Scorza Carlo ex combattente, tenente del 6° reparto di assalto decorato con quattro medaglie e parecchie altre onorificenze. L'oratore fu breve e conciso: illustrò lo scopo dei Fasci....Chiuse il suo dire conciso e suadente con un alato inno di pace, d'amore e di fede che ai buoni villici fa infiorire le cappelle votive che si incontrano lungo le vie campestri:...Fra evviva l' Italia ed il fascismo la riunione si sciolse nella più perfetta cordialità. I preparativi di partenza furono brevi in quell'ambiente pieno di affettuosità riconoscente e di promesse lusinghevoli, mentre poco lungi, belve dal sembiante umano nel bieco agguato spiavano il momento propizio per seminare la strage in quel pugno di giovani vite piene di fede e di rosee speranze. Gli ultimi Alalà echeggiarono per il silenzio dei campi e le macchine rombanti partirono verso il destino, verso l'ignoto".
Inizia a questo punto il capitolo del giornale intitolato "L'agguato": 
"La prima vettura riprese la via che porta ai Bagni di Lucca, la seconda, il camion col prezioso carico si diresse verso Diecimo, verso l'agguato (qui c’è un evidente errore perché il camion si diresse verso Lucca). Il camion giunto nella prossimità delle cave di Sesto dove la strada è dominata dal monte tagliato a picco, fu investito da una terribile raffica di macigni rotolanti dal....l'altezza di un centinaio di metri cadevano come bolidi; uno di questi, del peso di qualche quintale, investì il camion maciullando due fascisti, Giannini Gino e Delli Innocenti Nello e ferendone gravemente tre: Ballerini Felice, Mandoli Aldo e Baralla Aldo. Superato il primo momento di sorpresa, i fascisti rimasti incolumi saltarono a terra mentre il camion col carico di dolore e morte si dirigeva verso il paese di Diecimo. Quì furono apprestati i primi soccorsi, intanto veniva telefonato a Lucca da dove partiva d'urgenza il carro automobile della Misericordia che provvedeva al trasporto di urgenza dei feriti più gravi all'ospedale civile di Lucca. Anche su questo trasporto che la pietà cittadina offre a chiunque, delle belve umane nascoste tra i cespugli tiravano colpi di rivoltella, fortunatamente senza conseguenze dolorose. I fascisti rimasti incolumi agli ordini del segretario politico senza perdere tempo cercarono di scoprire gli autori di tanto efferato eccidio mentre da Lucca giungevano comions di carabinieri, guardie regie e fascisti che tutti insieme fecero una vera battuta notturna scoprendo ed arrestando nelle loro case noti comunisti e persone militanti nei partiti estremi. Mentre con la morte nel cuore i nostri amici cercavano di assicurare alla giustizia gli autori della strage, verso le 21 giungeva a Lucca il camions con le due vittime.
Le due care giovinezze spezzate erano sul piano del camion coperte di fiori, presso di loro spiccava funebre il macigno omicida tutto chiazzato di sangue. Il lugubre carro lentamente traversò la città terrificata dalla notizia malvagia e sostò in piazza Napoleone, indi circondato da fascisti e preceduto da una bandiera abbrunata raggiungeva la sede del Fascio. In un attimo la città piombò nel lutto più sincero. Fu sospesa la Fiera di Beneficenza ed il Festival che si svolgevano nel Cortile degli Svizzeri. Spontaneamente la compagnia Tumiati che agisce al Giglio sospese la rappresentazione, si chiusero i caffè i bars, le bettole i restaurants, la festa famigliare alle  Filocaristiche. Ovunque si sentivano rimpianti per le giovani vittime, maledizioni per i traditori della Patria, per i seminatori dell'odio....".
Le salme furono composte nella sede del Fascio e tutti inviarono fiori. Le salme "amorevolmente guardate da squadre di fascisti"  rimasero nella sede del Fascio fino al lunedì mattina, allorché furono trasferite nella camera mortuaria del Regio Ospedale Civile di Lucca (in via Gallitassi). I funerali si svolsero il giorno 25 maggio, data nella quale venne distribuito il giornale "L’ Intrepido".
 

Capitolo 4

I FATTI DI VALDOTTAVO NELLA RICERCA DELLO STORICO NICOLA LAGANA'

Un altro documento consultato è un lungo studio di Nicola Laganà, storico lucchese, pubblicato su "Quaderni di Farestoria"  Anno XIII – N. 2-3 maggio - dicembre 2011, rivista dell' Istituto Storico della Resistenza e dell'età Contemporanea in Provincia di Pistoia, dal titolo: I fatti di Valdottavo: Un esempio della strategia della tensione applicata da Carlo Scorza nella Val di Serchio. Il testo del Laganà, al di là della documentazione presentata, è caratterizzato da una precisa e voluta scelta di campo "antifascista". Con la sua ricerca lo storico vuole dimostrare che l’attentato di Valdottavo fu una provocazione degli stessi fascisti per farne ricadere la colpa sugli avversari politici. Nel testo il Laganà ha riportato diversi fatti, avvenuti nella primavera del 1921, che sono collegati all’attentato di Valdottavo. A parte il primo capitolo, che riguarda la nascita del fascismo a Lucca, in questa sede riporterò solo fedelmente le parti collegate all' attentato che costò la vita a due giovani fascisti lucchesi. Ma seguiamo il testo di Nicola Laganà.

Il primo argomento trattato, come già detto, ha come titolo la "Nascita del fascismo a Lucca ed inizio della carriera politica di Carlo Scorza". L' autore cita nella sua introduzione lo storico Giuseppe Pardini (il cui padre era di Cerreto, persona che conosco e stimo, avendo con lui organizzato delle iniziative durante i miei mandati di Sindaco di Borgo a Mozzano) riprendendo la tesi da questi espressa in numerosi scritti, che a Lucca il fascismo nacque ufficialmente il 26 ottobre 1920, quando il movimento iniziò la sua espansione nell’Italia centro–settentrionale, in un periodo di forte tensione politica e sociale (vedi “biennio rosso”). Esso trovò molti adepti soprattutto nell’ambito della borghesia (reduci e/o studenti medi o universitari), della aristocrazia cittadina e dei ceti medi della campagna circostante, di fronte all’avanzata dei partiti di massa (socialista e cattolico) ed alla diffusione di leghe bianche e cooperative rosse. Il fascio di combattimento di Lucca unì i “fiumani”, rappresentati dallo studente universitario Nino Malavasi, ed i borghesi, guidati dal farmacista Baldo Baldi, che erano in contatto da mesi con il fascio milanese. Il primo presidente fu il col. Umberto Minuti, il segretario Goffredo Pieri, il vicesegretario Vincenzo Schettini ed i consiglieri Mario Guidi, Enzo Battistini, Dario Vitali, Baldo Baldi e Nino Malavasi. Inizialmente essi non suscitarono particolari timori nei loro avversari che, molto probabilmente, li sottovalutarono e si accorsero del pericolo soltanto dopo alcuni mesi. Prima della fine dell’anno questo piccolo gruppo fondò anche il giornale “L’Intrepido”, organo del Fascio di Combattimento (il cui primo numero ufficiale risale al 5 dicembre 1920), dal motto “Ardisco non Ordisco”. Gli artefici di questa operazione furono il Malavasi ed il Vitali, ai quali si affiancò poi il fiumano moderato Anatolio Della Maggiora e, solo più tardi, Carlo Scorza.

Il secondo capitolo trattato dal Laganà si intitola: "La primavera del 1921 e l’uccisione di Tito Menichetti a Ponte a Moriano". L’ episodio trattato è quello avvenuto il 25 marzo 1921, quando fu ucciso un giovane fascista pisano. Ma ecco cosa scrive il Laganà:  “Una “squadra punitiva”, composta da fascisti lucchesi e pisani, fece una spedizione a Ponte a Moriano, dove compì vari atti violenti contro gli operai del luogo; ma un ex-ufficiale, il pisano Tito Menichetti, rimasto a presidiare un camion bloccato da un’avaria, fu ucciso dal ferroviere Giuseppe Neri (originario di Castagneto Carducci, Livorno), il quale voleva vendicare i soprusi fatti a suo padre. Fu questo, prosegue il Laganà, il primo dei cosiddetti “martiri fascisti”.

Il terzo capitolo il Laganà lo dedica, finalmente, a "L’eccidio di Valdottavo", argomento di cui ci occupiamo. Scrive dunque Laganà: “Ma il culmine della strategia della tensione, alla quale ricorse quasi sempre lo Scorza, fu quella del presunto “Eccidio di Valdottavo”, operato a suo dire, dagli antifascisti del paese. Il 22 maggio 1921, alle ore 15, «[...] dalla sede del Fascio in Piazzetta S. Leonardo [Lucca] partiva un camion [di proprietà degli squadristi Berti Attilio e Alfredo di Saltocchio] con 18 (o 22) squadristi diretti alla volta di Valdottavo per assistere alla costituzione del Fascio. Non andavano per una delle solite spedizioni punitive, ma bensì “a portare la parola dell’amore e della fede, ad edificare in quel piccolo centro un altro faro luminoso che irraggiasse intorno il nuovo verbo.» In questi termini grondanti retorica si esprimeva, a distanza di circa 12 anni, Aldo Mandoli, uno squadrista che aveva partecipato alla spedizione ed era rimasto gravemente ferito durante la “presunta imboscata” degli antifascisti.
Ma alla “gita”, come veniva chiamata dai fascisti, partecipavano altri 4 uomini, arrivati a bordo di un’automobile, mentre altri 4, si erano portati (forse con lo stesso camion) sul luogo dell’agguato, oppure lo avevano raggiunto in precedenza.
Valdottavo, a circa 12 km. da Lucca, è una delle più importanti frazioni del Comune di Borgo a Mozzano (LU) lungo il fondovalle del torrente Cèletra, affluente di destra del fiume Serchio. Fino al termine del secolo XIX essa aveva un’economia essenzialmente agro–pastorale e contava soltanto qualche piccolo impianto industriale, legato strettamente alle attività primarie. Ma la fondazione del Cotonificio del Piaggione sulla riva opposta del Serchio, da parte della Società del Credito Industria Nazionale (al posto della quale subentrarono ben presto gli industriali genovesi Stefano Sciaccaluga ed Andrea Croce) offrì anche a Valdottavo nuove possibilità di lavoro, anche se retribuito poco e con orari di ben 10-11 ore (dall’alba al tramonto), sia per le donne, che per gli uomini ed anche per i bambini e le bambine.
Nel corso della grave crisi economico–sociale del primo dopoguerra, gli operai si organizzarono e, come ha scritto Claudio Ferri, «[...] fra il 1919 e il 1921 si sviluppò fiorente anche a Valdottavo il Partito Socialista e, dopo il congresso di Livorno del gennaio 1921, anche il nuovo Partito Comunista …». Ma i loro avversari, in maggioranza d’estrazione contadina e di tendenze conservatrici, capeggiati dai borghesi Silvio Mezzetti (“Tato”) e da Alessandro Mezzetti (“il Centurione”), risposero fondando un gruppo fascista, il quale avrebbe partecipato alla “Marcia su Roma” con ben 36 uomini; e, pochi anni dopo, avrà un ruolo fondamentale nell’imporre lo scioglimento della Amministrazione comunale antifascista di Borgo a Mozzano, l’ultima della Provincia. Esso era particolarmente numeroso, tanto che all’inizio del settembre del 1921, Alessandro Mezzetti dichiarò che contava già ben «[...] 60 inscritti di qui [sic] 56 agricoltori e 4 piccoli possidenti». Quest’ultimo, per il pomeriggio di domenica 22 maggio 1921, aveva riunito quasi tutto il paese presso il teatro “C. Colombo”, per festeggiare la “fondazione di una sezione dei Fasci di Combattimento”, ed aveva invitato anche i dirigenti lucchesi. Costoro erano giunti in paese ed avevano sfilato al canto di Giovinezza, Poi erano stati accolti dal comitato paesano (rappresentato da Alessandro Mezzetti, Almiro Maffei e Luigi Santini), che li aveva accompagnati al teatro dove erano presenti i notabili locali. Doveva essere presente, suo malgrado, anche il pievano, don Adolfo Pellegrini, che guidò la parrocchia fino al 1964, ed ebbe alcuni screzi con i fascisti (vedi: benedizione dei gagliardetti). Tra la folla c’erano anche gli “oppositori”, poiché, come ha scritto Claudio Ferri, «[...] erano presenti a questa assemblea, me lo raccontò personalmente alcuni anni prima che morisse, uno dei capi fascisti del tempo, il sopra nominato Silvio Mezzetti, detto Tato, anche i tre Valdottavini, che poi furono ingiustamente accusati del crimine dopo la fine dell’assemblea. Essi erano Cesare Della Nina, Amedeo Ramacciotti e Achille Giannarini. Lo stesso Mezzetti, che pure aveva interesse a mantenere come accertata la loro colpevolezza, mi disse che questi avevano lasciato l’assemblea solo un po’ prima che finisse.»
Dopo le presentazioni, intervennero il ten. Dario Vitali (invalido e medaglia d’oro al valore militare) e il ten. dei bombardieri Ugo Bolognesi (medaglia d’argento), che rievocarono la guerra vittoriosa del ’15-’18, i meriti del fascismo ed i rapporti con la religione. Infine Scorza (segretario politico del fascio lucchese) concluse la cerimonia con un suo discorso, così condensato dal periodico del suo partito: «[...] L’oratore fu breve e conciso; illustrò lo scopo dei Fasci, la sua opera altamente italiana, gli scopi di rigenerazione e ricostruzione, l’emancipazione delle classi lavoratrici dal giogo demagogico, la vera elevazione spirituale e materiale del proletariato della città e dei campi [e] invitò tutti ad iscriversi nei fasci. Chiuse il suo dire conciso e suadente con un alato inno di pace, d’amore e di fede come la fede che ai buoni villici fa infiorire le cappelle votive che si incontrano lungo le vie campestri.» Poi, verso le ore 17.20, per suo ordine, l’automobile con 4 fascisti (compresi Dario Vitali e Ugo Bolognesi) rientrò a Lucca, passando da Borgo a Mozzano e dalla via dell’Abetone e del Brennero, poiché sarebbe stata più facilmente danneggiata dai massi fatti cadere dai fascisti dall’alto della collina che sovrastava la cava dei Berardi. Altri 18 squadristi salirono sul camion; e, dopo poche centinaia di metri, si immisero sulla via Ludovica che costeggia sulla destra il fiume Serchio e si diressero verso Lucca. Ma, giunti poco prima di Rivangaio, in località “Croce Celata”, «[...] dall’alto colle [monte Elto] che su essa sovrasta minaccioso a picco, venivano lanciati sul camion dei grossissimi macigni del peso di alcuni quintali. Una di queste grosse pietre colpiva il camion in pieno. Fu un momento di indescrivibile terrore: due giovani rimanevano sotto il masso con la testa fracassata, ed altri tre riportavano delle ferite di una certa gravità. Non vi era altro da fare. Il camion ritornò indietro fino al prossimo paese di Diecimo [frazione di Borgo a Mozzano], dove da quella popolazione, costernatissima per l’accaduto, furono prodigate ai feriti le prime amorevoli cure”.
Il giornale fascista “L’Intrepido” ha accennato ad una sparatoria quasi immediata da parte degli squadristi. Ma contro chi sarebbe dovuta avvenire ed in quale direzione? E chi sarebbe stato in grado di reagire in quel modo? E, infine come facevano a sapere che si trattasse di un attentato, invece che di una frana, fenomeno che si verifica spesso in questa zona della valle, se non l’avessero preparato proprio loro? È più probabile, invece, che, passato il primo momento di disorientamento, Scorza abbia dato l’ordine di sparare, per rendere più verosimile l’idea che si trattasse di un vero attentato! Dodici anni dopo Aldo Mandoli, durante il discorso commemorativo, ricostruiva il momento terribile, affidandosi molto probabilmente più ai ricordi degli altri superstiti che non ai propri, poiché era stato ferito gravemente e aveva perso conoscenza. Infatti disse: «[...] Fui colpito duramente e svenni. Risvegliato come da un sogno spaventoso, fra un crepitio di spari, di grida, di comandi, un’orrenda visione che mai forse avevo intravisto negli anni di guerra, mi si parò dinnanzi. Felice Ballerini inanimato, arrovesciato sull’orlo del camion perdeva sangue da una vasta ferita alla testa, [Aldo] Baralla invocava il nome di mamma dolorando per le sue molteplici ferite, Nello Degl’Innocenti e Gino Giannini esangui, maciullati, dilaniati erano confusi fra sangue e terra nel fondo dell’autocarro accanto al masso. Di fronte alla tragica scena mi colse una profonda pietà per i morti, ed un disgusto ed un ribrezzo infinito per tutte le miserie umane, che armavano gli uni contro gli altri i figli di una stessa Gran Madre e che attraverso false ideologie, con una propaganda di odio selvaggio seminavano la strage ed il terrore».
Subito scattò la macchina dei soccorsi da parte dei sopravvissuti e degli abitanti di Diecimo e di Valdottavo, i due paesi più vicini al luogo dell’incidente. A questo proposito, il Correttore della Misericordia di Lucca (don Luigi Scatena) ed il Guardiano (Paolino Tognetti), che avevano ricevuto una telefonata, avevano chiesto prima chi fosse all’apparecchio (visto quello che era successo nel caso di Tito Menichetti, quando i carabinieri ed un parente dell’ucciso avevano costretto i soccorritori della Misericordia a consegnare il cadavere, durante il trasferimento dalla località di Ponte Rosso, presso Ponte Moriano, a Lucca). Era stato dichiarato allora che all’apparecchio c’era Carlo Scorza, ma loro appurarono in seguito che lo stesso in quel momento si trovava a Valdottavo. Riguardo, poi, alle presunte “rivoltellate”, che secondo i fascisti sarebbero stati indirizzate da individui nascosti nei cespugli contro la stessa “auto lettiga” sopraggiunta sul posto per trasportare i due feriti più gravi all’Ospedale, abbiamo una testimonianza scritta del caposquadra Antonio Filippini. Egli, in data 22 maggio 1921, ha dichiarato che l’ambulanza era giunta sul luogo alle 19.20 ed era rientrata a Lucca alle 20.30. Inoltre ha precisato: «[...] quando fummo per partire si udirono dei fischi e due colpi di rivoltella che furono sparati a circa 200 metri di distanza. Sembra che i medesimi partissero dai Carabinieri che non avevano ancora raggiunto il luogo dove era avvenuto l’eccidio.» In una postilla della suddetta pratica, lo stesso ha aggiunto che gli spari provenivano dalla parte del Piaggione (presso il Cotonificio), al di là del fiume Serchio. Inoltre ha concluso: «[...] Tale versione e cioè che fossero i Carabinieri ad esplodere [i due colpi] mi è stato oggi stesso confermata anche da un fascista.»
 
In un altro capitolo il Laganà tratta de "L’uccisione del casellante ferroviario Esmeraldo Porciani", episodio che l’autore mette in relazione ai fatti di Valdottavo.
Poche ore dopo l’“Eccidio” – scrive il Laganà - si sparse la voce che un casellante della ferrovia Lucca-Castelnuovo Garfagnana avesse assistito ad un traffico di uomini e mezzi, che il 21 maggio (più probabilmente), o la mattina del 22, si sarebbero recati sul luogo per effettuare una ricognizione e preparare il “presunto attentato”. Per questo andava eliminato quanto prima, perché avrebbe potuto mettere nei guai gli squadristi e, per di più, viveva nella zona industriale più antica di Lucca (Saltocchio-Ponte a Moriano-Piaggione), che Scorza intendeva conquistare a qualsiasi costo. Quest’ultimo, allora, decise di farlo fuori; ma, secondo i più, i suoi picchiatori avrebbero sbagliato, poiché, invece di colpire il casellante del Piaggione, paese che si trovava proprio di fronte al luogo dell’attentato, su indicazione di Nello Simi, si sarebbero rivolti contro Esmeraldo Porciani (nato a Gavorrano, GR nel 1868), il quale risiedeva e lavorava a Saltocchio, luogo dove il 21 febbraio 1880 l’industriale genovese Vittorio Emanuele Balestreri aveva inaugurato lo Jutificio, stabilimento tessile che all’inizio del secolo XX impiegava più di 1.000 addetti (comprese 650 donne). Il Laganà scrive dunque che gli squadristi partirono dal centro di Lucca (Cortile degli Svizzeri), la sera del 24 maggio, e si fecero dare un passaggio dai carabinieri, i quali con due camion erano appena ritornati da Ponte a Moriano dove avevano catturato 14 persone, rilasciate poco tempo dopo, poiché non avevano commesso il reato per il quale erano state imprigionate ingiustamente. Secondo alcune testimonianze, riferite dal Laganà, i fascisti avrebbero sbagliato bersaglio una seconda volta, volendo colpire il figlio di Esmeraldo Porciani, che si chiamava Latino e che al momento dell’ irruzione dei fascisti non era in casa. Esmeraldo Porciani (di 53 anni) e fu colpito con un colpo di pistola. Il casellante, in gravi condizioni, fu portato con lo stesso camion utilizzato dagli aggressori all’Ospedale di Lucca (che allora si trovava in via Galli Tassi, all’interno del centro storico), dove morì il 25 mattina, verso le ore 9. Nonostante il mascheramento, i partecipanti alla spedizione punitiva furono individuati ed arrestati. Si trattava di Lorenzo Grossi, di Enzo Battistini, di Giovanni Massagli, dei fratelli Giulio e Cesare Lupi. Del gruppo faceva parte anche “un latitante”, che per la Questura era “il maggiore indiziato” (Alfredo Menesini). Al gruppo appartenevano anche Nello Simi (anch’egli latitante) ed Umberto Guidotti. Uno dei responsabili dell’omicidio venne individuato subito (anche se fu indicato col nome errato di Vincenzo, invece che di Lorenzo), in quanto il Prefetto (Gennaro Di Donato) inviò al Ministero dell’Interno il seguente telegramma: «[...] 8. 411 Ministero Interno Direzione Generale Pubblica Sicurezza Roma Decorsa notte circa ore ventitre cinque individui si presentarono al primo casello ferroviario dopo stazione Ponte a Moriano [direzione Lucca] ed invitarono il casellante Porciani Esmeraldo fu Leopoldo ad uscire fuori Stop. Dopo poche parole uno di essi esplose contro Porciani colpo rivoltella ferendolo gravemente bocca Stop.»  Il trasporto funebre di Esmeraldo Porciani avvenne il 26 maggio.
A questo capitolo, relativo all’efferata uccisione del Porciani, mi corre l’obbligo di fare alcune considerazioni: i fascisti avrebbero commesso, nella loro spedizione punitiva, due errori macroscopici, che mi sembrano davvero assai improbabili. Secondo quanto scritto dal Laganà gli squadristi volevano colpire un casellante del Piaggione, che poteva aver visto gli attentatori di Valdottavo e invece vanno a colpire un casellante che abita a Saltocchio; secondo testimoni citati dallo stesso Laganà i fascisti volevano colpire il figlio di Esmeraldo Porciani, Latino (per il quale però non è spiegato il collegamento con l’attentato di Valdottavo) ed invece colpiscono a morte suo padre. Mi viene da pensare, vista la vicinanza del casello di Saltocchio con il luogo in cui era stato ucciso il fascista Tito Menichetti (il 25 marzo 1921), se l’uccisione di Esmeraldo Porciani non potesse avere legami con quell’episodio, anziché con i fatti di Valdottavo.

Lo storico Laganà correda l’articolo riguardante la morte del casellante con il capitolo dedicato al Processo agli squadristi fascisti per l’omicidio del Porciani.                                                                       L’istruttoria – scrive il Laganà - fu affidata all’avv. cav. Marchetti. Fin dall’inizio emersero quali fossero i principali responsabili del delitto ed i loro complici. Così, in un trafiletto de “Il Serchio”, veniva affermato: «[...] Il Grossi [Lorenzo] è stato qualificato, come il principale responsabile della spedizione, mentre come presunto autore materiale del delitto è stato denunziato il fascista Menesini Alfredo di anni 21 da Lucca che si è dato alla latitanza. […]»  Finite le indagini preliminari, il cav. Tognelli, dopo aver dichiarato il non luogo a procedere per alcuni degli imputati minori, annunciava misure analoghe nei confronti di Enzo Battistini, Giovanni Massagli, Cesare e Giulio Lupi, Umberto Guidotti, Renato Petrocchi ed Enrico Sarti Magi “per insufficienza di prove”. Ma chiedeva il rinvio a giudizio, di fronte alla Corte d’Assise di Lucca, per il detenuto Lorenzo Grossi e per i  latitanti Alfredo Menesini e Nello Simi. Tutti gli imputati però vennero assolti salvo il Menesini [Alfredo], latitante, che venne condannato a 17 anni e 2 mesi di reclusione, giudicandolo colpevole di omicidio e violenza e minacce a mano armata. Il 22 dicembre 1922 la stessa Corte d’Assise, per sopravvenuto decreto, pronunciava declaratoria di amnistia. Il Laganà scrive che quell’amnistia fu revocata il 23 maggio 1945. Dal Laganà si apprende anche che qualche problema l’ebbe Nello Simi (cioè colui che aveva indicato il Porciani come testimone oculare delle manovre dei fascisti lucchesi prima dell’attentato), soltanto al termine della guerra. Il 9 maggio 1945 la Procura comunicò che era stato assolto il 20 ottobre 1921, ma che «[...] il Simi, associato a queste carceri appena rientrato a Lucca da Bologna, viene trattenuto con regolare ordine sotto l’accusa di collaborazionismo.» Ma nel giro di poco tempo finì l’epurazione dei fascisti e molti di coloro che avevano commesso vari reati (compresi gli omicidi) furono amnistiati e rimessi in libertà. Così nel dicembre del 1947 vennero nuovamente processati Alfredo Menesini (carcerato) e Nello Simi (latitante) ed i loro complici nel delitto Porciani.  Al termine del dibattimento la Corte d’Assise Straordinaria, dopo aver esaminato le carte del processo del 1921, sembrava orientata verso l’assoluzione del latitante Simi e per la condanna a 12 anni (con il condono di un terzo della pena) al Menesini; ma, dopo una brevissima permanenza in “Camera di Consiglio”, cambiò l’imputazione da “omicidio” in “concorso di omicidio preterintenzionale”, dichiarò “estinto il reato in seguito all’amnistia” e rimise in libertà il Menesini. Gli avvocati difensori (Andrea De Vita e Luigi Velani) riuscirono così a far passare la tesi difensiva ed a scaricare la responsabilità dell’omicidio sull’ormai defunto Lorenzo Grossi, insinuando che si trattasse di beghe personali.

Nel successivo capitolo il Laganà racconta il "Il funerale dei fascisti" morti nell’agguato di Valdottavo, esprimendo le sue certezze assolute circa la responsabilità dei fascisti per l’accaduto. Scrive dunque il Laganà:
“L’ex-tenente del “3° Genio Telegrafisti” e laureando in Chimica all’Università di Pisa, Gino Giannini di quasi 23 anni, ed il ventunenne Nello Degli Innocenti, in realtà non furono “martiri fascisti”, ma “martiri dei fascisti”, cioè vittime della violenza cieca dei loro stessi compagni di partito. Per essi, comunque, si mobilitò l’intera città e vennero rappresentanze delle organizzazioni fasciste delle città toscane più vicine. Per indicare quale fosse il clima di quel giorno (25 maggio) basta citare il dettagliatissimo atto di morte, registrato nei libri della Parrocchia della Cattedrale di Lucca, poiché l’estensore ha ricostruito la drammatica fine dei giovani e, nello stesso tempo, ha dimostrato come la Chiesa locale fosse tendenzialmente favorevole ai fascisti, in quanto si presentavano come i difensori della stessa contro i socialisti, i comunisti e gli altri partiti anticlericali ed erano, almeno a parole, i fautori dell’ordine ed i garanti della proprietà privata. I giornali locali, sia cattolici che fascisti, descrissero quasi negli stessi termini la presunta “imboscata” ed il funerale dei due giovani fascisti; ed usarono termini forti come, per esempio, “barbarie” e “belve umane nascoste fra i cespugli”. I discorsi funebri furono pronunciati dall’on. Augusto Mancini (Unione Democratica Provinciale), dal prof. Sbolgi e dallo studente Giannotti dell’Ateneo di Pisa, dal segretario generale dei fasci Umberto Rasella (venuto appositamente da Milano), dal segretario del fascio lucchese Carlo Scorza, dal sindaco di Lucca dott. Pietro Pfanner e dall’operaio Lucchesi. I due caduti di Valdottavo (assieme al fascista Tito Menichetti, ucciso a Ponte a Moriano) vennero ricordati a Lucca anche nel trigesimo e le autorità predisposero un nutrito servizio d’ordine. Ma i RR. Carabinieri poterono rassicurare il Prefetto che non si erano verificati incidenti. Nell’articolo "Orazione detta dal Segretario Politico del Fascio al R. Teatro Pantera il 22 ultimo scorso", a piena pagina, lo Scorza teorizzava la sua “religione fascista”, affermando (con un accostamento blasfemo) addirittura che “la Trinità sorge dal sangue” e dedicava un intero paragrafo alla Preghiera di ispirazione dannunziana.
Il Sindaco Pfanner nel corso della seduta straordinaria del Consiglio Comunale del 30 giugno 1921, pronunciò tra l’altro le seguenti parole: «[...] Ed ora una parola di rimpianto alle vittime degli odi di parte che si sono, per effetto dei tempi, risvegliati nelle nostre belle contrade. Giannini Gino, Degli Innocenti Nello, Porciani Esmeraldo che avete seguito nella tomba, Valente Vellutini, Angelo Della Bidia e Tito Menichetti io vi mando il saluto più affettuoso della nostra Città, io mi inchino dinanzi a Voi tutti perché, vittime innocenti, foste sacrificati al nostro Paese, che atterrito alla vista del Vostro sangue pianse e si fece più mite, più buono. Iddio accettò il sacrificio e dette di nuovo la pace a noi che quella anelavamo. […]».

“Il processo ai “sovversivi” rossi per il “presunto” attentato (di Valdottavo)” è un altro dei capitoli del lungo articolo del Laganà, che testualmente scrive:
“Subito dopo il cosiddetto attentato, si cercò di scovare i colpevoli nel paese di Valdottavo ed a Ponte a Moriano, per indebolire l’opposizione antifascista all’interno della classe operaia, secondo la strategia scorziana, la quale mirava a conquistare con la violenza tutta la Val di Serchio. La situazione degli arrestati di Valdottavo fu più difficile fin dall’inizio. Tra l’altro essi furono catturati nelle loro case dai fascisti e poi consegnati ai carabinieri, come risulta da un documento del R. Prefettura di Lucca del 12 aprile 1945, preparato dal Questore ed inviato a Roma dal prefetto Giovanni Carignani. In esso, dopo accurate indagini, si dichiarava che il 22 maggio 1921 «[...] il Grossi [Lorenzo] presi gli ordini dallo Scorza, organizzava, nella stessa serata una numerosa squadra di fascisti che si recava nuovamente a Valdottavo ove giunsero circa le ore 21,30 ed in collaborazione con i fascisti del luogo effettuavano rappresaglia contro elementi avversi che, prelevati dalle proprie case e condotti nel teatro del paese [“C. Colombo”] vennero, dopo breve interrogatorio, violentemente percossi e purgati, procedendo inoltre all’arresto dei presunti autori dell’incidente sopra [ac]cennato e precisamente dei comunisti […]»
Al principio di giugno del 1921 si affermava molto genericamente che il commissario di P.S. [Sergio] Pannunzio aveva arrestato «[...] molti comunisti gravemente indiziati, i quali essendo stati visti nei pressi del monte da cui furono precipitati i massi sul camion dei fascisti, non seppero dare spiegazioni del perché si fossero trovati in quei luoghi; ed anzi caddero in evidente contra[d]dizione.»
Per avere, però, un quadro più completo, bisogna consultare il rapporto del Capitano dei Carabinieri di Lucca del 27 maggio 1921, riguardante le “Indagini relative all’imboscata praticata a fascisti la sera del 22 andante a Cava di Barandi [Baraldi]” (Vedi capitolo 1 di questa ricerca). All’inizio del documento (dei Carabinieri) si dichiarava che, dopo l’inchiesta, erano emersi “indizi di partecipazione al delitto stesso o sospetti per altro motivo”, per i quali si era proceduto “nella notte dal 22 al 23 e nella giornata del 23” all’arresto ed al trasferimento “nelle Carceri di Lucca a disposizione dell’Autorità Giudiziaria” di
1) Giancarini [Giannarini] Achille di Innocenzo, d’anni 31
2) Ramacciotti Giuseppe di Michele, d’anni 36
3) Tassani Nello di Carlo, d’anni 23
4) Andreuccetti Alberto di Albino, d’anni 22
5) Tassani Alfredo di Carlo, d’anni 18
6) Tomei Omero di Silvio, d’anni 23
7) Mezzetti Antonio fu Felice, d’anni 23
8) Bertolacci Angelo di Carlo, d’anni 23
9) Tosi Giuseppe d’Oliviero, d’anni 18
10) Tosi Italo d’Oliviero, d’anni 21
11) Filippi Stefano fu Ferruccio, d’anni 28 detto il “Pisa”
12) Salsini Natale di Eugenio, d’anni 30
13) Gori Augusto fu Luigi, d’anni 34, detto il “Pisa”
Il 14°, Luppi Umberto
detto lo “seramisco” (forse perché non aveva fissa dimora), era attivamente ricercato, poiché si era reso irreperibile. 
Da un attento esame delle motivazioni verbalizzate sommariamente dai militi, si può notare come gli indizi fossero generici e vaghi, poiché alcuni dei sospettati sarebbero stati intravisti nelle vicinanze del “luogo del delitto”, ma molte ore prima. Inoltre molti di loro, per semplice curiosità o perché costretti, avevano assistito a tutta o quasi tutta, la cerimonia che si era svolta nel Teatro. L’unico sul quale potevano pesare sospetti un po’ meno vaghi era Achille Giannarini, “incastrato” dalla deposizione di Giuseppe Ramacciotti, il quale lo avrebbe accusato “di aver detto un giorno non precisato nel caffè di Ida Bianchini in Valdottavo: ”se vengono i fascisti gli faremo una scarica di pietrare”; e rivelato che “si è allontanato dal Teatro di Valdottavo ove fu tenuto il comizio subito dopo i discorsi dei due primi oratori” e di averlo visto “mezz’ora prima del fatto salire per un sentiero sul poggione della Calatra [Celetra] in direzione del luogo ove avvenne l’imboscata”. Ma nessun testimone fu in grado di segnalare la presenza dei compaesani maggiormente sospettati sul luogo del delitto, proprio all’ora dell’attentato. Una volta istruito il processo, quando già i giudici stavano per mandare assolto uno dei presunti colpevoli e per condannare a pene lievi gli altri due, i fascisti li costrinsero a tornare in camera di consiglio ed a condannare tre innocenti:                                «[...] 1) Giannarini Achille, di Innocenzo, nato a Borgo a Mozzano il 9 febbraio 1890, domiciliato a Valdottavo, località “Castello”; […] alla pena dell’ergastolo, con segregazione cellulare continua;
2) Dell’Anina [Della Nina] Cesare fu Guglielmo, nato a Borgo a Mozzano il 19 Aprile 1895, residente a Valdottavo, […] ad anni 17 e mesi 6 di reclusione con la segregazione cellulare per due anni, ed anni tre di Libertà vigilata, nonché all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e quella legale durante la pena;
3) Ramacciotti Amedeo, nato [a Borgo a Mozzano] il 10 Marzo 1893, ivi [Valdottavo] domiciliato, […] ad anni 30 di reclusione ed anni 10 di libertà vigilata. […]».

In un altro capitolo il Laganà parla de “Gli anniversari dell’eccidio”: “A partire dal 1922, per ricordare i “martiri” di Valdottavo, tutti gli anni si ripeteva un “rito fascista”, immortalato anche nel libro “Nostri morti - Ricordi di Carlo Scorza” (Tip. ed. G. Giusti, Lucca 1921). Il giornale cattolico moderato “L’Idea Popolare”, diretto prima dal prof. Arturo Chelini e poi da Alfredo Pera, e che aveva tra i redattori don Pietro Tocchini, parroco di S. Marco e fondatore delle “Leghe Bianche”, in occasione del primo anniversario si occupò dell’avvenimento e ne rievocò le varie fasi, ricalcando la versione “fascista”. Così, dopo aver parlato della festa di Valdottavo, descrisse il momento del “delitto preparato freddamente”, la campagna d’odio (come se i fascisti fossero stati degli “agnellini” e non avessero contribuito ad alimentarla) ed i delitti successivi, causati dalle fazioni. Dopo aver ricordato affettuosamente le vittime, dimenticandosi però che facevano parte di una squadra di manganellatori fascisti, dedicò qualche parola alla “terza vittima sia pure indiretta, dell’eccidio orrendo: Esmeraldo Porciani, popolare” ed invocò infine il ritorno della pace in Val di Serchio. I fascisti celebrarono la ricorrenza dal 22 maggio 1922 (scegliendo la domenica che cadeva più vicina all’anniversario), invitando rappresentanze dalle varie città italiane e fecero di questa cerimonia una delle più importanti del calendario lucchese. L’afflusso a Lucca di centinaia di squadristi, in occasione del primo anniversario, aveva suscitato la preoccupazione del Prefetto, il quale indirizzò il 16 maggio 1922 un telegramma ai colleghi di varie città toscane, emiliane e di Milano e Genova, per sorvegliare attentamente gli squadristi “perché questi non portino armi”. Inoltre chiamò rinforzi per la forza pubblica e si mise d’accordo con i dirigenti delle ferrovie, per predisporre un treno speciale, “chiesto dalla locale sezione fascista per il giorno 21 corrente in partenza da Lucca alle ore 14,30 per Piaggione con ritorno da quest’ultima stazione in ora tale da prendere subito la coincidenza coi treni per Pistoia e per Viareggio delle ore 19.41”. Alle manifestazioni a Lucca intervennero molte migliaia di persone, a quella di Valdottavo dalle 1.500 alle 2.000 persone, ma per fortuna la giornata passò liscia e non si verificarono episodi di violenza. Il 31 maggio 1925 alla cerimonia parteciparono anche gli onorevoli Roberto Farinacci e Roberto Rossoni, giunti a Lucca in occasione dell’inaugurazione nel Cimitero urbano di S. Anna (Lucca) del Monumento a Giannini e Degli Innocenti, progettato dallo scultore lucchese Francesco Petroni. L’anno successivo, venne inaugurata invece, sul luogo dell’attentato, una lapide in marmo, che successivamente fu affiancata da colonnine con i fasci. Questa ricorrenza venne festeggiata dallo Scorza e dai superstiti dell’“Eccidio”, con grande pompa, fino al 1932. Poi, dopo il suo allontanamento da Lucca, la cerimonia fu organizzata dai successori, sempre con l’intervento delle autorità, dei parenti delle vittime e di gente comune, come si può riscontrare dai giornali dell’epoca, che corredavano gli articoli con servizi fotografici. Inoltre per il grande piazzale che si trovava fuori porta S. Maria (o Giannotti), che era stato intitolato ai “Martiri di Valdottavo”, lo scultore Alfredo Angeloni progettò un Monumento, costituito da un’“Esedra a porticato” con “due fasci luminosi laterali”, i quali dovevano rappresentare i due caduti. Ma, per mancanza di fondi adeguati, venne costruita soltanto una fontana (con i fasci) al centro del piazzale, demolita dopo la caduta del regime. Inoltre, proprio nell’anno in cui lo Scorza cadde in disgrazia e fu costretto, nottetempo (7 ottobre 1932), ad allontanarsi per qualche giorno da Lucca, ebbe inizio la realizzazione del Monumento ai “Martiri del Fascismo”. Infatti l’ «[...] 11 Maggio 1932 fu disfatto il monumento di Carlaccio posto sulle mura urbane nel bastione di S. Donato [S. Paolino]. Al mattino fu discesa la statua e nel pomeriggio fu portato al Museo Civico.» Il “Monumento ai Caduti Fascisti”, venne inaugurato poi dal segretario nazionale del PNF, Achille Starace, il 20 maggio 1934. Esso era costituito da 14 colonne di marmo, disposte attorno ad un’ara. Il baluardo sul quale sorgeva, in epoca fascista, cambiò nome e venne dedicato al “XXVIII Ottobre” (“Marcia su Roma”).
 
Un altro capitolo della ricerca di Laganà, interessante per evidenziare la “verità controversa sui fatti di Valdottavo” che sto cercando di ricostruire, è intitolato: 1927-1932: si intacca la catena dell’omertà e lo Scorza viene allontanato”. Il Laganà scrive: in seguito ad alcune denunce dei suoi stessi compagni di partito, molti dei quali erano stati espulsi; e ad accuse di speculazioni edilizie, di scandali bancari, di illecito arricchimento del fratello e suo personale, di ricatti ecc., Starace inviò l’on. Remo Ranieri a Lucca, come commissario straordinario dal 23 giugno al 30 settembre 1932, per condurre un’inchiesta. Dopo qualche mese, Carlo Scorza fu costretto a lasciare Lucca di nascosto ed il 19 dicembre dal PNF gli venne comminata la deplorazione per “deficienze di carattere politico”. Ma, già dal 1927, il muro dell’omertà incominciò ad incrinarsi ed alcuni collaboratori, scontenti del modo in cui dirigeva la vita politica locale e dal fatto che aveva fatto allontanare ed espellere dal partito alcuni degli uomini più potenti (Nino Malavasi, Anatolio Della Maggiora, Baldo Baldi , il pesciatino Tullio Benedetti, i viareggini Michelangelo Chiapparini e Lio Reggiani, il garfagnino Fedele Pennacchi, ecc.) inviarono lettere anonime al Duce (che il 15 maggio 1930 non volle passare dal luogo dell’eccidio), per denunciare le malefatte del proprio capo. In una di esse, dopo aver dichiarato di aver compiuto delle operazioni illecite per ordine di Scorza, un suo stretto collaboratore faceva la seguente denuncia: «[...] A dimostrazione di questo basti l’eccidio di Valdottavo. La verità è questa; egli e cioè Carlo Scorza per mettersi in valore e farsi conoscere organizzò una gita a Valdottavo dopo aver predisposto che [Lorenzo Grossi e] Michele Ballerini attuale podestà di Pietrasanta [ed altri due squadristi] quando i Camions ritornavano indietro gettassero, facendoli rotolare dalla montagna, dei massi di pietra in modo da ostruire la strada e dar modo di sfruttare l’attentato perché poi giovasse, come è avvenuto, al suo piedistallo. La fatalità volle che i massi nel rotolare tardassero ed avvenne la morte di Giannini e Degli Innocenti e la mutilazione di Baralla. Ma poiché certo Porciani di Ponte a Moriano aveva veduto il giorno prima Scorza a dare disposizioni sul posto, ci dette ordine di uccidere Porciani che fu ucciso. Ma in Valdottavo tutti sanno la verità e possono deporre se  interrogati con sicurezza di non essere esposti a persecuzioni. Se vengono chiamati a Roma i maggiorenti del paese diranno certamente la verità.» Ma anche altri lucchesi accusarono il Segretario per le sue malefatte. Infatti, in data 9 agosto 1932, «[...] l’avv. Gino Giorgi alla presenza di Tito Davini e mia, ha detto che lo Scorza Carlo, per dimostrare che a Lucca vi erano dei Comunisti, simulò e fece simulare dai Fascisti l’eccidio di Valdottavo nel 1921. Così pure per farsi largo, simulò un tradimento elettorale, per distogliere le simpatie che si era creato il Rag. Cav. David Barsotti fatto nel 1924. […]». Vasco Giannini (fratello di Gino), scrivendo allo stesso amico Carlo Scorza, gli comunicò quello che gli aveva riferito Pietro Degl’Innocenti (il padre di Nello, una delle vittime), il quale «[...] sabato pomeriggio è venuto a trovarmi nel mio ufficio e mi ha dichiarato che l’o[mi]cidio di Valdottavo era stato organizzato da voialtri per poter avere la ragione di fare una forte rappresaglia nel paese di Valdottavo e nei paesi vicini essendo questi molto sovversivi. Secondo lui la vostra intenzione era di simulare un attentato mentre disgraziatamente risultò un eccidio. Mi ha assicurato di non aver parlato di questo col commissario però mi ha dichiarato che “intorno all’eccidio di Valdottavo ci sono molti punti da chiarire; che i veri colpevoli non sono stati condannati, che lui è pienamente convinto della vostra colpevolezza; che questa è voce comune a Valdottavo, che intorno a questo eccidio gli è stato imposto il silenzio ma è stato tuttavia pregato vivamente di non parlarne essendogli state addotte ragioni di opportunità in considerazione che tu, avendo occupato cariche importanti, si sarebbe finito col dover riconoscere che un uomo (Carlo Scorza) che ha vuto alti incarichi di fiducia di organizzazione e di indirizzo della gioventù italiana finirebbe col risultare gravemente tarato dovendo rispondere di un delitto di questo genere”.Inoltre, sempre il padre di Nello Degl’Innocenti, aggiungeva le seguenti prove: «[...] 1° Il Marchese Perrone-Compagni (segretario politico regionale) non ha voluto dopo il primo anniversario partecipare negli anni successivi alla commemorazione e questo perché dopo l’eccidio, avrebbe fatto un’inchiesta con esito tale da impedirgli le ulteriori partecipazioni. Questo il Degl’Innocenti [Pietro] l’asserisce sulla scorta di assicurazioni fattegli da un amico. 2° che all’epoca del processo il giornalista Gualtiero Paolini che si era proposto di fare luce sulla cosa, dopo i primi articoli gli fu imposto di tacere da Lorenzo Grossi il quale in quell’occasione lo avrebbe picchiato. Questa dichiarazione è stata fatta dal Paolini stesso al Degl’Innocenti il quale Degl’Innocenti alcuni giorni fa gli chiese la ragione del perché, a quell’epoca, avesse così repentinamente smesso di scrivere sull’eccidio di Valdottavo. 3° che è dispiacente della morte dell’Avv. Ricci di Pietrasanta il quale possedeva le prove della vostra colpevolezza. Anche questo il Degl’Innocenti dice di saperlo con sicurezza, perché confidatogli da un amico.»  Infine Giuliano Magherini ha ricordato che l’avv. Giulio Ballerini, «[...] poco dopo il fatto mi raccontò, molto eccitato, che suo fratello [Felice, rimasto ferito a Valdottavo] aveva avuto un violento diverbio con Scorza al quale aveva rimproverato di ; al che Scorza avrebbe risposto che non aveva avvertito nessuno perché altrimenti molti per paura non sarebbero intervenuti.» Da parte sua, in una lettera indirizzata a Benito Mussolini (conservata nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma, busta n. 93 come altri documenti già citati), l’accusato tentò di giustificare il suo operato, fingendo di dimenticare le altre accuse che pendevano su di lui (di corruzione, speculazione, malversazione, vessazioni ed intimidazioni, debiti e comportamento antisindacale, ecc.), limitandosi ad accennare ad alcuni fascisti che aveva espulso e che erano stati reintegrati. Al tempo stesso rivelò per la prima volta al Duce il retroscena del cosiddetto “Eccidio di Valdottavo”, poiché dichiarò che, secondo le denunce dei suoi avversari politici, si trattava di un’imboscata simulata dai fascisti e, quindi, non organizzata da parte dei loro nemici social-comunisti. Alla luce di queste rivelazioni assumerebbe un altro significato la dedica a Pietro Degli Innocenti, nel libro Nostri morti. Ricordi (p. 5), nella quale, quasi a scusarsi del suo operato, aveva scritto: «[...] Pietro, queste pagine, indegne del Sacrifizio che ricordano, non sono che un pallido riflesso della fede che le anima. Io le offro a te, perché tu – avendo vissuto molte mie giornate di questa lotta, ingrata ma santa - puoi e sai perdonare in nome del tuo Nello. Fraternamente. CARLO SCORZA.» Infatti egli scriveva in data 1 settembre 1932, utilizzando molte delle frasi di Vasco Giannini: «[...] Sono accusato di assassinio ! Il dott. Vasco Giannini, fratello di uno dei Martiri di Valdottavo, mi scrive oggi che è stata diffusa la voce che l’imboscata, in cui caddero schiantati dai massi due nostri camerati e quattro rimasero feriti, sarebbe stata preparata da me allo scopo di giustificare la violenza squadrista. Tale infamia si è diffusa perché, il babbo dell’altro Martire, Nello Degli Innocenti, è stato chiamato in Federazione e gli è stato comunicato, con circospezione, la notizia. Vero è che coloro che lo hanno interrogato hanno  aggiunto che la mia intenzione non fu omicida, ma che voleva limitarsi solamente ad una simulazione: l’eccidio avvenne per pura fatalità. Il Degli Innocenti è stato anche pregato di non farne parola, dato che l’autore aveva ricoperto – bene o male – importanti cariche nel Partito. Ma il peggio non è tutto qui: il peggio è nel fatto che al disgraziato padre è stato detto anche che le prove non si possono ormai più avere perché colui che le possedeva è morto da un pezzo [l’on. avv. Ricci]. Anche la sottile perfidia dell’impossibilità delle prove ! In seguito al diffondersi di tale voce, le famiglie dei sovversivi condannati cominciano a proclamare apertamente la innocenza dei loro parenti. Duce, vogliate comprendere il mio dolore che in questo caso non riesce ad essere alleggerito nemmeno dallo sdegno. Quando penso che sul fatale camion di Valdottavo partimmo in sedici [18] e ritornammo in dieci; quando penso allo schianto infernale dei massi che fecero poltiglia di tanta giovinezza; quando penso che per lungo tempo ho serbato, come una reliquia, il vestito macchiato dalla materia cerebrale di uno dei diletti compagni che l’urto mi aveva abbattuto sulle spalle; quando penso che nessuno – nessuno ! di coloro che oggi dirigono la vita politica della federazione fu mai visto da me né a Valdottavo né in nessuna delle spedizioni in cui caddero i Martiri di Lucchesia, confesso che mi sento davvero invadere da una profonda angoscia.» Lo stesso uomo politico, invece di rigettare con decisione l’accusa (anche se la definì una “infamia”), ma fingendo di essere altruista e temendo che ad un tratto cadesse quel castello di carta che aveva edificato e sul quale si reggeva anche buona parte del suo potere a Lucca, concludeva: «[...] ma non per me io Vi scrivo: scrivo perché stimo tradimento tacere. Queste notizie sono particolarmente pericolose per l’animo dei giovani i quali con esse vedono brutalmente crollare le loro illusioni sull’Eroismo o sul Martirio fascista. La popolazione della mia provincia non è come quella di Romagna [era stato commissario straordinario di Forlì dal 22 settembre 1928 all’8 aprile 1929], ardente e travolgente, è sottile nell’indagine, fredda e diffidente nella critica. Ogni anno abbiamo portato il popolo a inginocchiarsi davanti alle tombe dei Martiri e alla fine siamo riusciti a crearne la Religione: oggi il popolo giura sinceramente su Coloro che caddero per la sua redenzione, si deve distruggere questa religione faticosamente acquisita alla scettica anima lucchese? Duce, si fa strazio dello Spirito! Ecco il grido che Vi lanciamo. Solo Voi potete, con la Vostra gran voce, ridare all’anima della gente di Lucchesia l’impeto lirico che conosceste nelle giornate di Maggio. Ogni altro intervento si arresterebbe ormai sulla superficie. Per me chiedo solo che Voi crediate ancora nella mia fedeltà. Con devozione C. Scorzo [Scorza].» Comunque egli rientrò alcune volte a Lucca (di notte o molto presto al mattino), nel novembre e nel dicembre del 1932, dopo aver trascorso dei periodi a Napoli e, soprattutto, a Roma. Lui in particolare, ma anche i familiari, erano soggetti ad un attento controllo da parte delle forze di polizia, sia quando viaggiavano che quando ricevevano qualcuno nella sua villa “Scorza”, in via delle Tagliate; oppure quando uscivano di casa. Infatti, poiché si temeva che potesse succedere qualche scontro fra le opposte fazioni fasciste, venivano sorvegliate la sua residenza e quella del fratello Giuseppe. Lui stesso era pedinato in continuazione, sia quando era in città che quando si allontanava dalla stessa. Inoltre veniva fatto un rapporto giornaliero sulle persone che venivano a trovarlo a casa, o che incontrava per la strada. Ma la sua stella era tramontata ormai a Lucca, tanto che qualcuno faceva circolare cartoline che recavano il suo ritratto con vestiti da brigante e la scritta “Bandito calabrese”; e, ogni tanto, apparivano scritte sui muri con frasi ingiuriose. Pochi erano coloro che lo osannavano ancora. Comunque se la cavò abbastanza bene. Inoltre continuava ad essere importante, tanto che riuscì a far richiamare all’ordine, dalla Questura e dall’Arcivescovo mons. Antonio Torrini, padre Lodovico da Frosinone, il quale durante il quaresimale, l’aveva tirato in ballo, con le seguenti considerazioni, annotate dai poliziotti: «[...] gli uomini passano cadendo anche da posti alti mentre Iddio è immortale disse che i Lucchesi ne avevano fatto un recente esperimento et volgarmente soggiunse che nei caffè si chiedeva oggi un poncino senza scorza.» A seguito dell’allontanamento provvisorio dell’on. Scorza (detto anche “Bonturo Corteccia”) da Lucca e quello definitivo del marzo 1934, lo scaltro uomo politico riuscì a rientrare nelle grazie del Duce dopo il 1939 ed a ricoprire varie cariche importanti, anche a livello nazionale, fino a sostituire il 18 aprile 1943 Aldo Vidussoni alla segreteria del PNF e ad affrontare, con la solita ambiguità, la prova del 25 luglio 1943, quando Mussolini venne deposto ed arrestato.

Il Laganà arriva quindi al capitolo che intitola Conclusione”: A proposito dei presunti colpevoli dell’attentato, il Ferri, raccolte le testimonianze dei compaesani, ha auspicato una revisione del processo ed una riabilitazione postuma degli imputati innocenti, la cui condanna ha causato anche gravi conseguenze per i familiari. Questo problema venne affrontato alla fine della guerra, poiché Giovanni Carignani, il primo prefetto di Lucca dopo la liberazione, in data 16 marzo 1945 comunicava al cap. Pietro Mori che la “Sezione Istruttoria presso la Corte di Appello di Firenze” stava preparando un’istruttoria formale circa l’aggressione subita dall’On. [Giovanni] Amendola nel luglio 1925 in quel di Serravalle Pistoiese e che la Questura di Lucca aveva il 10 marzo 1945 inviato un rapporto su questo e su “altri fatti delittuosi”, compiuti al tempo in cui Carlo Scorza dominava incontrastato la scena politica locale ed era un protagonista della cronaca nera. Ma lasciamo da parte l’aggressione ad Amendola, da attribuirsi a Carlo Scorza (assieme ai complici Fernando Andreoni, Lelio Bonaccorsi, Lorenzo Grossi, Alberto Mario Amedei, Bruno Piagentini, Renato Benedetti ed Orazio Benetti), ed interessiamoci degli accenni all’“Eccidio di Valdottavo”, del quale la Questura di Lucca attribuiva la responsabilità principale ad una persona deceduta nel 1932 (Lorenzo Grossi) e che poteva coprire così quella ben più importante (cioè Carlo Scorza) ancora in vita. Quest’ultimo, fuggito da Milano dopo l’arresto da parte dei partigiani, espatriò clandestinamente in Argentina, dove rimase fino al 1955, poi rientrò in Italia e trascorse tranquillamente il resto della vita nelle campagne fiorentine fino al 1988. Molto probabilmente chi si occupò del caso non aveva sotto mano tutte le carte della R. Prefettura di Lucca e, in particolare, il dossier riguardante Carlo Scorza conservato nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma, altrimenti avrebbe potuto ristabilire la verità. Comunque questa relazione ha ricostruito, in maniera a dir poco cervellotica (o fuorviante?), la preparazione ed esecuzione del falso attentato, dichiarando che «[...] una squadra di fascisti agli ordini di tale Grossi Lorenzo […], si diresse a Valdottavo (Borgo a Mozzano) a fine propagandistico e punitivo. In tale circostanza il Grossi, a scopo provocatorio, non avendo trovato in detta frazione elementi contro i quali poter sfogare il suo livore, dispose con alcuni fascisti, di istigare elementi comunisti del luogo a portarsi sullo stradale e precisamente al pendio del Monte Elto, per far ruzzolare alcuni grossi macigni sull’autocarro dei fascisti di ritorno, non al fine di colpirlo, ma soltanto a scopo provocativo, sen[n]onché l’autocarro giunto nella località sopra citata, veniva, invece investito da vari macigni, causando, così, la morte dei fascisti: Giannini Gino, Degli Innocenti Nello ed il ferimento di Ballerini Felice, Mandoli Aldo, Baralla Aldo (amputazione dell’arto inferiore) e lesioni lievi a Benedetti Guido, Tattera [Tattara] Vittorio ed Evangelisti Carlo». Ma la vera ricostruzione stava nelle varie lettere anonime o firmate dai fascisti lucchesi al Duce e soprattutto nella stessa autodifesa, che era al tempo stesso un’autodenuncia, dello Scorza! Inoltre, solo alla fine della guerra, gli antifascisti arrestati ingiustamente per l’“Eccidio” poterono rendere le loro testimonianze ed accusare anche i loro compaesani fascisti (ad eccezione del Giannarini, morto nel carcere di Montelupo Fiorentino). Tra di loro c’era uno dei condannati, Amedeo Ramacciotti, il quale dichiarò al mar. magg. Giuseppe Ponzio dei carabinieri di Borgo a Mozzano, il 17 ottobre 1945: «[...] Il 9 luglio 1921, venni arrestato in seguito ad una denuncia fatta dai fascisti di Valdottavo, nella quale mi accusavano di aver partecipato all’uccisione di due fascisti e del ferimento di altri avvenuto in località del Monte detto Eita [Elto], avvenuto il 22 Maggio dello stesso anno. Nonostante che non fossero emerse prove a mio riguardo, causa le intimidazioni fatte ai miei testimoni dal Mezzetti Alessandro venni condannato alla pena di 30 anni di reclusione».
Ma la persecuzione da parte dei fascisti, che si erano sostituiti alle forze dell’ordine nell’arrestare, interrogare e “bastonare” gli antifascisti, continuò. Infatti, aggiungeva Amedeo Ramacciotti, «[...] le minacce e le angherie da parte del Mezzetti e di altri fascisti nei riguardi di mia moglie continuarono, tanto è vero che il Mezzetti ebbe più volte a minacciarla con la pistola in pugno, dicendogli: se non avesse dichiarato in tribunale che al momento che avvenne l’uccisione e il ferimento dei fascisti, io mi trovavo con lei nel prato a lavorare. Dalle angherie fattegli, mia moglie si ammalava e dopo circa 4 anni decedeva. Il 23 Maggio 1937, venni dimesso dal carcere e così potei rientrare in Valdottavo. Le persecuzioni del Mezzetti non erano terminate, impose a tutti i proprietari del luogo di non darmi del lavoro e che non dovevano parlare con me». Anche altri testimoni, interrogati dai carabinieri, confermarono la sua dichiarazione e denunciarono inoltre Luigi Santini (fuggito al Nord con i nazifascisti) ed altri squadristi locali. Ma le persecuzioni fasciste continuarono. Infatti «[...] nel 1937 il Ramacciotti Amedeo venne rimesso in libertà, come se non bastassero le sofferenze delle carceri, veniva ugualmente perseguitato, e spesso picchiato anche dai fascisti Bertuccelli Rizieri e da Cicchi Antonio e da Bacci Lidamo. Nel 1938 [il Santini] usò violenza contro l’antifascista Della Nina Cesare picchiandolo. Il Santini era aiutato dai fascisti Mezzetti Silvio, Mezzetti Alessandro, Profetti Giulio e Bertuccelli Rizieri.
 

Capitolo 5

IL CONTRIBUTO DELLO STORICO LUCCHESE PROF. GIUSEPPE PARDINI

Anche il professor Giuseppe Pardini, docente universitario lucchese, oggi professore associato di Storia contemporanea all'Università degli Studi del Molise, si è occupato della nascita e dell’affermazione del fascismo nella provincia di Lucca, pubblicando i suoi elaborati sulla rivista “Documenti e Studi” rivista semestrale dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea. Sul numero 14/15 dell’anno 1994 ha presentato uno studio dal titolo: “Alle radici del fascismo “intransigente”. Teoria e prassi politica del fascismo lucchese (1920-1922)” dove si occupa anche dei fatti di Valdottavo del maggio 1921.
All’inizio dello studio il prof. Pardini fa una riflessione interessante che inquadra bene il cosiddetto “biennio rosso” degli anni 1919/1920. Scrive dunque il Pardini: “Verso la fine del “biennio rosso”, così viene indicato il periodo 1919-1920, in cui si verificò la vasta ed importante azione politica del socialismo tesa a conquistare effettivamente il potere, sia preparando un terreno idoneo all’attacco rivoluzionario allo Stato (tramite agitazioni, scioperi, manifestazioni) sia intensificando la propria presenza nella società (costituendo sindacati, leghe, cooperative, casse di soccorso e di mutua assistenza, ecc.) sia ancora occupando quegli spazi politici che la forza numerica e di consenso permetteva (ottenendo la guida di numerose amministrazioni comunali e provinciali), iniziò l’espansione nazionale del fenomeno politico del fascismo”. (pagine 8/9).
Nel proseguo dello studio il prof. Pardini racconta i fatti di Valdottavo: “ Il 22 maggio (1921) una squadra fascista si recava in camion a Valdottavo, paese della campagna di Lucca, per un giro di propaganda. Al ritorno, nella stretta gola della strada, vi fu un agguato mortale (si disse ordito dai comunisti e tre di essi dei paesi limitrofi vennero arrestati e condannati: alcuni grossi massi vennero fatti precipitare sul camion, causando la morte di due giovani fascisti, Gino Giannini e Nello Degli Innocenti, edi il ferimento di altri tre. L’episodio presentò tuttavia alcuni lati oscuri e non fu mai definitivamente chiarito. Anzi, molti anni dopo quando il segretario del PNF, Starace, invierà un commissario del partito per verificare l’operato di Scorza e dei dirigenti lucchesi nella provincia, inizieranno a cadere molti veli ed il federale Andrea Ippolito (il primo federale inviato dalla direzione del partito che sostituì l’ultimo federale lucchese, l’ex squadrista Artidoro Nieri) raccolse non poche voci e segnalazioni che volevano lo stesso Scorza organizzatore dell’agguato diventato poi, sfortunatamente, involontaria tragedia che gli avrebbe consentito di avere mano libera per più completa e totale opera repressiva. Le inevitabili e cruente rappresaglie non si fecero attendere: a Valdottavo, al Piaggione, a Ponte a Moriano, a Lucca vennero compiute azioni punitive che culminarono nell’omicidio, assurdo e brutale, del casellante ferroviario di Ponte a Moriano, Esmeraldo Porciani….”. A proposito di questo omicidio il Pardini scrive: “…privo di qualsiasi responsabilità, iscritto al PPI, il Porciani non ebbe altro torto che di essere scambiato con un’altra persona che avrebbe dovuto essere colpita: un altro casellante ferroviario del paese di Piaggione che si riteneva fosse in qualche modo a conoscenza di alcuni elementi sull’agguato di Valdottavo” (pagine 61/63). Un altro elemento importante sottolineato dal Pardini nel suo studio è quello del consenso popolare al fascismo lucchese e della capacità di mobilitazione dei fascisti. Lo fa sottolineando la diversa partecipazione ai funerali delle vittime di Valdottavo e del ferroviere Esmeraldo Porciani; scrive il Pardini: “Ai funerali dei due giovani (Giannini e Degl’Innocenti) la partecipazione popolare, aumentata anche dal concentramento in città di fascisti da tutta la regione, fu notevole: oltre 20.000 persone dice “L’Intrepido”; molto meno, circa la metà per gli altri organi di informazione; intorno alle 5.000-6.000 persone, per le autorità. Piazza S. Giovanni, piazza S. Martino erano completamente gremite; il corteo funebre che sfilò attraversando la città dal Duomo a piazzale Verdi, fu imponente e composto”. Partecipava l’on. Ciano e ci furono i discorsi delle autorià, che il Pardini elenca. “…parlò il Sindaco di Lucca, il popolare Pfanner; parlò l’on. Augusto Mancini, per gli abitanti di Valdottavo e per la Democrazia lucchese; il prof. Sgolbi e lo studente Giannotti per l’Università di Pisa; il fascista Ascanio Lucchesi per gli operai lucchesi; e chiusero i discorsi Umberto Pasella e Carlo Scorza, la cui orazione terminò la celebrazione ufficiale [….] Quattro giorni dopo, ai funerali del casellante Porciani, - scrive il Pardini – la città, nello sdegno per il vile gesto, rispose in modo molto diverso e meno partecipe: neppure 500 persone per l’estremo saluto accompagnarono in piazza S. Maria il corteo funebre ufficiale, dove la manifestazione cittadina si sciolse al discorso ufficiale del sindaco Pfanner per poi proseguire in forma privata per l’Indicatore…..Soltanto il paese di Ponte a Moriano, dove si svolsero le esequie, tributò il doveroso saluto alla vittima del terrore” (pag. 61/64). In una nota (la 101)  al suo testo il Pardini scrive: “Molti documenti in possesso dell’Istituto (Storico della Resistenza) avvalorano questa tesi (che Scorza sarebbe stato l’organizzatore del finto attentato finito male), scagionando completamente i tre condannati. L’episodio – aggiunge Pardini – come abbiamo già detto, sarà oggetto di uno studio particolare e approfondito, teso a ricercare la verità dei fatti”.                    
Non sono riuscito a trovare questo studio nelle mie ricerche.
Un altro testo interessante il prof. Giuseppe Pardini lo presenta anche sul numero 18/19 della rivista “Documenti e Studi” rivista semestrale dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea. Lo studio presentato in questo numero ha per titolo “Dalla conquista del potere all’avvento del regime. Vicende politiche del fascismo lucchese (1923-1934)”. Trattando il momento della parabola discendente di Carlo Scorza, il Pardini cita, tra le accuse mosse al ras lucchese dall’inchiesta dell’on. Remo Ranieri del 1932, anche quella di “essere l’organizzatore dell’agguato, trasformatosi involontariamente in strage, di Valdottavo del maggio ’21”, giungendo però alla conclusione che “questa fu indubbiamente l’accusa più grave ed infamante che comunque , insieme a molte delle altre non poggiò su basi e prove solide e definitive)…”. (pagina 209).


Capitolo 6
 
I FATTI DI VALDOTTAVO NELLA BIOGRAFIA DI CARLO SCORZA

Carlo Rastrelli, nato a Napoli nel 1959, vive a Mantova, dove lavora come dirigente d’azienda nel settore delle Risorse Umane. Ricercatore storico, collabora da anni con riviste specializzate nel campo della storia militare e dell’uniformologia. È autore del volume CARLO SCORZA L'ULTIMO GERARCA (Mursia Editore - 2010), la prima biografia dell’ultimo segretario del Partito Nazionale Fascista.
A pag. 25 del libro l’autore scrive: Contestualmente al crescere delle sezioni e degli iscritti cresce l’organizzazione militare e l’efficienza delle squadre d’azione e, conseguentemente, il numero e la violenza delle spedizioni punitive. Basti pensare che se nel mese di febbraio del 1921 vi sono due scontri violenti tra manifestanti di opposte fazioni, nel maggio successivo divengono 15 gli episodi di violenza politica...Il fatto più grave, commemorato solennemente durante tutto il ventennio, avviene a Valdottavo, il 22 maggio 1921. E’ una soleggiata domenica di maggio e una squadra di fascisti lucchesi si è recata in camion a Valdottavo, un paese nella campagna di Lucca, per un giro di propaganda e per l’inaugurazione della locale sezione del fascio. Al ritorno nella stretta gola della strada, in prossimità delle cave di Sesto di Moriano, si verifica un agguato mortale. Alcuni grossi massi vengono fatti precipitare sul camion causando la caduta in una scarpata e la morte di due giovani fascisti, Gino Giannini e Nello Degl’Innocenti, e il ferimento di altri…Tuttavia, come scrive Giuseppe Pardini nelle sue dettagliate ricostruzioni, “per l’episodio vennero arrestati e condannati tre contadini comunisti dei paesi limitrofi ma l’episodio presentò alcuni lati oscuri e non fu mai definitivamente chiarito. Anzi molti anni dopo, quando il Segretario del PNF Starace inviò un commissario del partito per verificare l’operato di Scorza e dei dirigenti lucchesi nella provincia, inizieranno a cadere molti veli e furono raccolte non poche voci e segnalazioni che volevano lo stesso Scorza organizzatore dell’agguato (divenuto poi involontariamente tragedia) che gli avrebbe consentito di avere mano libera per una più completa e totale opera repressiva”.
 
Queste sono alcune parti del libro di Rastrelli. Lo stesso però, in una intervista del 2010, per la presentazione del suo libro, risponde ad una specifica domanda sull’attentato di Valdottavo in questo modo:
 
DOMANDA - Dottor Rastrelli, dalla ricostruzione che offre nel suo libro rimane controversa la responsabilità di Carlo Scorza nell'agguato mortale di Valdottavo…
RISPOSTA - L’episodio di Valdottavo presentò indubbiamente dei lati oscuri mai definitivamente chiariti. Nel maggio del 1921 tuttavia divennero frequenti e sempre più violenti gli scontri tra i fascisti ed i “rossi”. Premesso che nessun valore sul tema può essere attribuito all’indagine condotta nel 1932 dall’on. Ranieri su ordine di Starace, perché finalizzata a distruggere politicamente il ras lucchese, l’ipotesi più credibile resta, a mio avviso, quella dell’agguato avversario. È difficile credere che Scorza, presente su quel camion precipitato nella scarpata a seguito del lancio di massi, abbia rischiato la propria vita e determinato la morte ed il ferimento di alcuni dei suoi “camerati” al solo fine di determinare il pretesto per ulteriori e più violente reazioni squadriste.
 

Capitolo 7
 
I FATTI DI VALDOTTAVO NELL'INTERVENTO DELLO STORICO GIACINTO REALE

Navigando in internet mi sono imbattuto in questo intervento dello storico dei primi anni del fascismo Giacinto Reale...

“Non è in buona fede e non ha retta coscienza chi non sa o non vuole riconoscere l’assalto di una nuova specie che il nemico ci ha mosso. Abbiamo resistito e resistiamo ancora, serenamente e senza tentennare, pensando che il martirio varrà un giorno ad illuminare la nostra azione e a conquistare i ciechi e gli increduli” 
(manifesto affisso dal fascio lucchese dopo i fatti di Valdottavo, 21 maggio 1921)

Che la storia la scrivano i vincitori è una verità fin troppo risaputa; che questa scrittura richieda aggiustamenti e accomodamenti è altrettanto risaputo; che si arrivi alla menzogna e dalla falsificazione è un pò più difficile da ammettere. E, invece, succede, in varie forme: si può dire una menzogna su un fatto non documentato o privo di testimoni; si può falsificare un documento; si può alterare (anche solo “forzandola”) una testimonianza; si può inventare di sana pianta una versione diversa dalla realtà, fidando solo sull’autorevolezza dell’autore dell’invenzione.
Ma si può anche partire da un documento vero, e, con un’opera di “taglia e cuci” trasformarlo in una cosa “altra” e fargli dire una verità “altra”.
In un esempio minimo minimo sono incappato giorni fa, e ve lo racconto qua.


IL FATTO
Il 22 maggio del 1921, una ventina di squadristi lucchesi, guidati da Carlo Scorza (destinato a futura ma incerta fama, perché ultimo Segretario del PNF, nominato il 19 aprile del ’43, terrà, prima, durante e dopo la famosa riunione del 25 luglio, un comportamento unanimemente criticato) si recano in camion a Valdottavo per presenziare alla fondazione del locale fascio di combattimento.
Terminata la cerimonia, alla quale, in un teatro, hanno assistito – e questo è abbastanza inspiegabile – quasi sino alla fine, un po’ defilati, ma indisturbati, tre noti sovversivi del luogo, il camion riparte, nella massima tranquillità.
Giunto in località “Croce Celata”, poco prima di Rivangaio, l’automezzo – sul quale ha preso posto lo stesso Scorza – viene centrato in pieno da molti massi (alcuni del peso vicino al quintale), fatti precipitare dall’alto (monte Elto).
Un macigno particolarmente grosso (sarà prima conservato nella sede del fascio di Lucca e successivamente esposto alla Mostra della Rivoluzione Fascista), battendo su una roccia sporgente per la china del monte, fa una parabola e piomba sul veicolo. Vi sono due morti, gli studenti universitari Gino Giannini e Nello Degl’Innocenti, quattro feriti gravi e svariati feriti leggeri, tra i quali lo stesso Scorza.
Le indagini, condotte dalle forze dell’ordine, portano al fermo di quattordici persone, tre delle quali vanno poi a processo. Sono gli stessi tre individui vista alla cerimonia fascista; la tesi accusatoria è che fossero lì per procurarsi un insospettabile alibi, salvo poi allontanarsi prima della fine, per predisporre l’agguato.
I tre, durante il processo, cadono in contraddizioni, e si accusano tra loro; in particolare, ad uno viene addebitata dagli altri la frase: “Se vengono i fascisti, gli faremo una scarica di pietrate”. Riconosciuti colpevoli verranno condannati a pesanti pene detentive.

PETTEGOLEZZI DI PAESE
Nel 1932, in coincidenza con la caduta in disgrazia di Scorza, che viene allontanato da Lucca, cominciano a circolare – ad opera dei suoi avversari interni al PNF – delle voci secondo le quali si sarebbe trattato di un’imboscata simulata dai fascisti stessi, su ordine del loro capo, che così voleva accrescere il suo ruolo nell’ambito del movimento e avere “mano libera” nella sua azione squadrista.
Il futuro ultimo segretario del PNF risponde, immediatamente, con una lettera a Mussolini, nella quale ribadisce la sua assoluta innocenza e definisce “infamia” l’accusa.
Tale essa viene, in effetti, considerata dal vertice del Regime, e, anche nel dopoguerra, la Magistratura non riterrà – nonostante il clima sia tutt’altro che favorevole ai fascisti sconfitti – di dover riaprire il caso, confortata da un rapporto della Prefettura che, sia pure un po’ pilatescamente, nella sostanza ribadisce la colpevolezza dei tre sovversivi condannati a suo tempo.
Personalmente credo che l’ipotesi di un attentato “costruito” non abbia né capo né coda.

Scorza non ne ha bisogno per riaffermare la sua autorità sul fascio lucchese, né per organizzare “rappresaglie” (che poi, in effetti, non ci saranno, se si esclude un morto, probabilmente estraneo ai fatti);
solo un aspirante suicida potrebbe pensare a farsi cadere addosso, dall’alto, una valanga di pesanti massi di su una strada tortuosa e piena di curve;
la stessa magistratura che condanna i tre responsabili (e ne manda assolti altri undici), quasi in contemporanea assolve la gran parte degli accusati dei ben più gravi fatti di Sarzana, a riprova di un’impermeabilità a pressioni per sentenze di comodo. Per non dire che identica cosa avverrà nel dopoguerra, senza nessun procedimento a carico di Scorza o altri fascisti della zona.
 
LA MENZOGNA E IL FALSO
Cercando on line qualche notizia in più su questo episodio (che io sappia, non esiste un libro sul fascismo lucchese delle origini) mi imbatto in un articolo apparso su “La Nazione” del 21 giugno 2010; eccone un estratto:
“(E’ solo un’infamia la voce per cui) l’imboscata sarebbe stata preparata da me allo scopo di giustificare la violenza squadrista. Vero è che…la mia intenzione non fu omicida, ma voleva limitarsi solamente ad una simulazione: l’eccidio avvenne per pura fatalità.” Con queste parole autografe, scritte al duce il 1° settembre 1932, e firmate da Carlo Scorza, oggi, a quasi 90 anni dai fatti, salta fuori la verità, finora solo presunta, sulla colpevolezza del segretario del Partito fascista a Lucca in relazione al famoso eccidio di Valdottavo del 1921”
“Accidenti – mi dico – roba da non crederci: un fascista che ammette di aver organizzato un finto attentato nel quale due suoi camerati sono morti, quattro feriti gravemente, e, ciò nonostante, diventa, di lì a qualche anno, Segretario Generale del PNF”
Le cose non stanno affatto così: ecco il testo integrale della lettera:
“Duce… sono accusato di assassinio. Il dott Vasco Giannini, fratello di uno dei martiri di Valdottavo, mi scrive oggi che è stata diffusa la voce che l’imboscata, in cui caddero schiantati dai massi due nostri camerati, e quattro rimasero feriti, sarebbe stata preparata da me allo scopo di giustificare la violenza squadrista. Tale infamia si è diffusa perché il babbo dell’altro martire, Nello Degli Innocenti, è stato chiamato in Federazione, e gli è stata comunicata con circospezione la notizia. Vero è che COLORO CHE LO HANNO INTERROGATO HANNO AGGIUNTO CHE la mia intenzione non fu omicida, ma voleva limitarsi solamente ad una simulazione: l’eccidio avvenne per pura fatalità. Duce vogliate comprendere il mio dolore. Per me chiedo solo che voi crediate alla mia fedeltà”
 
Anche sorvolando sul restante “taglia e cuci”, con l’eliminazione delle parole che per comodità ho messo in maiuscolo, il giornalista (si chiama Paolo Bottari) stravolge il senso della lettera di Scorza, che non è assolutamente una confessione di colpevolezza, ma, anzi, l’orgogliosa rivendicazione del proprio operato e la richiesta che la verità sia ristabilita, contro le menzogne di avversari interni di Partito.
Un autentico falso, che andrebbe punito a norma di codice penale… se penso che, in un prossimo futuro, qualche ignaro studentello di liceo (ma non solo) potrebbe servirsi anche di quell’articolo per ricostruire i fatti, rabbrividisco…

Giacinto Reale


Capitolo 8
 
I MARTIRI DI VALDOTTAVO, TRA GLI 800 UCCISI NEGLI ANNI 1919 - 1932

Sempre navigando in internet ho trovato l'elenco  degli "oltre 800 fascisti che - tra il 1919 ed il 1932 - furono trucidati o uccisi dagli antifascisti" e, in questo elenco risultano anche i due morti di Valdottavo con questa dicitura:

22.05.1921 - Degl’Innocenti Nello – nato a Lucca 19.9.1899 – morto maciullato da alcuni massi fatti precipitare di proposito da alcuni antifascisti su un camion di fascisti che transitava nella zona di Valdottavo (Lucca).
22.05.1921 - Giannini Gino – nato a Pontetetto (Lucca) 12.3.1898 - morto maciullato da alcuni massi fatti precipitare di proposito da alcuni antifascisti su un camion di fascisti che transitavano nella zona di Valdottavo (Lucca).
 

Capitolo 9

"NOSTRI MORTI" - UN TESTO DI CARLO SCORZA DEDICATO A TITO MENICHETTI, NELLO DEGL'INNOCENTI E GINO GIANNINI

Ad un anno di distanza dai tragici fatti del 1921 che portarono all'uccisione in località "ponte rosso", a Ponte a Moriano di Tito Menichetti e all'attentato di Valdottavo in cui persero la vita Nell Degl'Innocenti e Gino Giannini, il capo del fascismo lucchese, Carlo Scorza, dette alle stampe un piccolo libro dal titolo "NOSTRI MORTI" , Lucca - Tipog. Edit. G. Giusti - 1922, titolo che, nell'interno, lo Scorza arricchisce di un sottotitolo: "Ricordi".
Il testo, scritto da Scorza, si apre con una dedica "A Pietro Degli Innocenti", fratello di uno dei morti di Valdottavo; dedica che, negli anni successivi, sarà motivo di polemica e di dubbi verso lo stesso Scorza, soprattutto per il passaggio, poco chiaro, in cui è scritto: "Pietro....queste pagine....io le offro a te, perchè tu - avendo vissuto molte mie giornate di questa lotta, ingrata ma santa - puoi e sai perdonare in nome del tuo Nello". 

Il testo prosegue poi con il capitolo dedicato a Tito Menichetti (Pisa 3 dicembre 1898 - Ponte a Moriano 25 marzo 1921) - vedi foto in questa pagina - con il ricordo della personalità di questo giovane fascista, combattente della prima guerra mondiale appena diciassettenne, e con la descrizione della morte a Ponte a Moriano. Scrive a questo proposito Scorza: "Il 25 marzo del 21 venne a Lucca e con pochi suoi fratelli in fede partì per il Ponte a Moriano, ove doveva essere acceso un nuovo focolare d'italianità in mezzo alla tenebra folta che per anni l'odio e la malvagità avevano diffuso tra l'ignoranza e l'errore. A Ponte a Moriano egli non giunse: restò a guardia di una automobile avariata. Fu circondato da bestie avide di sangue: non volle uccidere perché il suo animo, assetato di bellezza rifuggiva da ogni bruttura; ebbe una pallottola nel capo mentre consegnava la sua arma. Lo pescarono morente in fosso melmoso che il Suo sacrifizio ha ormai reso puro come un fonte battesimale. Il padre, la madre, la sorella non hanno più lacrime perché il dolore le ha tutte consumate: i suoi fratelli di lotta non hanno più fiori perché li hanno tutti colti e posti ai piedi del Suo altare: Ogni degno figlio d'Italia però serba nel suo cuore la Sua luce e la Sua certezza".
Il testo prosegue con una foto di Menichetti sul letto di morte, il testo dell'orazione funebre pronunciata il 29 aprile 1921 dal titolo "Guardia dell'Ideale", una foto dei funerali di Tito Menichetti a Pisa e il testo pubblicato su "L'Intrepido" nell' anniversario della morte. L'introduzione dell'articolo è questa: "Tito Menichetti - per dimostrare che non era recato a Ponte a Moriano per uccidere - consegnava ad un nemico la propria arma. Il nemico - nascosto fra donne e fanciulli - con la stessa arma, lo uccise".
Dopo questo nel testo c'è la foto di Nello Degli Innocenti (Lucca 19 settembre 1899 - Valdottavo 20 Maggio 1921) - che riporto in questa pagina - ed il capitolo a lui dedicato. Anche per lui il ricordo della partecipazione alla prima guerra mondiale, dove si era guadagnato una croce di guerra e un encomio solenne sull'Altissimo, prima di essere congedato perché colpito dal tifo. Poi la conclusione del testo, scritto da Scorza: "Fu fascista silenzioso, umile, devoto: come uno di quei sacerdoti di pura fede che annientano nella polvere per esaltare il loro Iddio nella luce. Fu dei diciotto di Valdottavo: gli scoppiò il cuore sotto il macigno rotolato dalla montagna". Segue la foto di Gino Giannini (Massa Pisana 11 marzo 1898 - Valdottavo 22 maggio 1921) - che riporto in questa pagina - ed anche per lui una dedica da parte di Carlo Scorza. Prese il diploma in agrimensura nel 1917 e si iscrisse ad ingegneria a Pisa. Nel luglio 1918 lo troviamo allievo-ufficiale all'Accademia Militare di Torino. Congedato nel maggio 1920 riprese gli studi con grande passione, passando dall'ingegneria alla chimica. Il commento finale di Scorza è il seguente: "Fu fascista di pura fede, quantunque avesse pienissima coscienza di quanto - non per se, ma per i suoi - valesse la posta che metteva al servizio della Patria. Il masso di Valdottavo gli schiacciò la fronte".
Poi, finalmente, il capitolo dedicato a "L'orrore di Valdottavo", quello che ci interessa particolarmente. Vediamo le frasi più interessanti scritte da Carlo Scorza"C'era tanta luce nel cielo e sulla terra, tanta esultanza di verde, tanto rigoglio di vita in quel pomeriggio di maggio, che ne eravamo quasi ebbri. Il camion sostava nella piazzetta S. Leonardo. Benedetti fece l'appello della squadra: sedici in tutto. Giannini e Baralla non erano segnati sulla nota: li feci scendere dall'autocarro tre volte: alla fine, vinto dall'insistenza, non me ne curai più e ordinai la partenza....Giovinezza, primavera di bellezza! Ma quando scorgemmo, attraverso il polverone sollevato dalla vettura, il Ponte Rosso ove due mesi prima era stato assassinato Tito Menichetti, tacemmo e ci levammo in piedi come alla presenza di un Dio Luminosissimo. Salutammo alla voce....La strada si ripopolò allora dei rombi del motore, di canti, di grida, di vita. Al Ponte a Moriano, davanti alle case popolari, qualcuno guardò e disse: "Non canteranno al ritorno!".Ci slanciammo sulla strada del Serchio tra la boscaglia che s'infittiva verdissima e il fiume che fluiva stanco e lento. Il convento dell'Angelo sprizzava fiamme rosse e turchine da ogni suo vetro, mentre la Croce di Brancoli diveniva sempre più rigida e sacra...Come lontana da noi era la morte che si nascondeva sul nostro capo! Valdottavo era tutta una festa di tricolore. In piazza attorno a noi impolverati, sudati, ansanti si stringeva tutto il popolo: giovani, vecchi, fanciulli in piena esultanza di rinascita. Nel piccolo teatro parlammo Vitali, Bolognesi ed io. Nessun discorso mi è rimasto inchiodato nella memoria come quello per la costituzione del Fascio di Valdottavo...Un'onda di commozione intensa passò nella folla: vidi molti occhi lustri di lacrime. Rimanemmo ancora un pò di tempo a spasso per il paese: i fascisti si confusero tra i gruppi di contadini e di ragazze; alcuni rimasero in piazza guardare un ciarlatano che mangiava la stoppa accesa e guariva dal mal di capo. Poi rimontammo sul camion e partimmo per Lucca. ...Qualcuno intanto si slanciò dalle ultime case per la campagna verso il monte e salì per muovere la strage, ordita infernalmente, con le stesse mani che forse ci avevano applaudito...

Ed ecco il racconto, dettagliato, del momento della strage:
Vorrei che le mie parole fossero come uno scalpello duro per incidere nel cuore di chi può dimenticare tutto l'orrore che abbiamo vissuto in quel pomeriggio...Eravamo partiti da circa venti minuti. S'affievolivano i canti: forse per la stanchezza, forse per l'intima gioia che ci veniva dal nuovo focolare che avevamo acceso...Il sole s'attardava sulle cime indorandole...l'ansito regolare del motore era rotto dallo stridìo delle rondini che saettavano tra monte e riva...Dov'era la morte?...Era nel cuore di chi spiava dall'alto. Silenzio! S'udì dall'altra sponda un colpo di fucile. Non più di un minuto dopo, udimmo sul motore e sul capo un frullo d'ali spaventoso: un masso enorme descrisse una parabola alta sulla strada e piombò sulla riva del Serchio. I canti cessarono del tutto: per un rapidissimo istante s'udì il pulsare del motore; poi improvvisa rapida violenta, una rovina di terra e di sassi: un tonfo sordo, uno schianto: un urlo solo di terrore di dolore, di morte. Una sterzata a destra e il camion s' addossò alla parete di roccia. Davanti a noi , sulla strada, precipitò con fragore immenso il resto della valanga.. Un carretto che stavamo per sorpassare sparì in una visione infernale: non so per quale miracolo conducente e cavallo riuscirono incolumi da tanta tempesta. Balzammo a terra. Benedetti e Matteucci che si erano buttati di sotto si rialzarono malconci. Ci fu un momento di silenzio: l'orrore aveva vinto il dolore. Poi si udì alto: - Nello! Nello! Nello! - Pietro Degli Innocenti mi saltò al collo, soffiandomi nella bocca, più che parlandomi: - Hanno ammazzato Nello! - Non ricordo se gli rispondessi: balzai verso la spalletta del camion da cui pendeva rovesciato Ballerini con grumi di sangue che gli filavano sulla testa, lo sollevai aiutato da non so chi (credo da Grazioli) che era rimasto sulla vettura. Baralla intanto si lamentava debolmente, chiedendo aiuto per la sua povera gamba ridotta misera poltiglia. Quando mi sollevai sino a lui, vidi qualche cosa come un groviglio informe di braccia, di gambe, di teste, e poi sangue, tanto sangue commisto a terra, sparso in larghe chiazze scure che si allargavano sempre di più. Gino Giannini che, come attratto da un destino malvagio, aveva per forza voluto partecipare alla gita, e Nello Degli Innocenti, il forte e silenzioso fascista, compagno assiduo del nostro duro travaglio, giacevano travolti sotto un masso enorme. Fui strappato dalla vista orrenda da Lelio Mandoli che mi trascinò accanto al fratello Aldo, abbandonato come un morto sull'orlo di un fosso. Improvvisamente crepitò una scarica di rivoltellate: le bestie - non contente dei massi - volevano finirci col fuoco. Più alti si levarono i lamenti dei feriti, e più forti si scagliarono le imprecazioni dei vivi. Tentammo scalare la montagna, ma ci fu impossibile per lo strapiombo della roccia; vidi Pietro Degli innocenti slanciarsi contro la insuperabile muraglia come se volesse scavarvi i gradini con la testa: Tattara riuscì ad afferrarlo in tempo. Lelio Mandoli correva urlando come un invasato per la strada in cerca di un varco alla salita e alla vendetta. Fu quello - scrive Carlo Scorza - uno dei momenti più tragici della mia vita: non credo di averne vissuti di più penosi dal Col di Colbricon, dal Tomba, al Monfenera, al Piave. Proseguire verso Lucca era da pazzi: la strada era ingombra di massi, altri agguati potevano essere stati preparati. Bisognava tornare indietro: a Diecimo. Manovrammo il camion a braccia perché il luogo non permetteva diversamente. Per ogni movimento che davamo alle ruote udivamo sul nostro capo più forte l'urlo di Baralla e il rantolo di Ballerini. Per le fessure di fondo dell'auto-carro colava sangue. Riuscimmo dopo uno sforzo immane a rimettere la macchina nella nuova posizione. Durante il lavoro altri colpi ci furono tirati dal bosco. Caricammo i feriti e c'incamminammo lentamente per la vicina ambulanza di Diecimo. I superstiti, a piedi, badavano a garantirci da altre sorprese. Al bivio di Valdottavo trovammo un gruppo di persone che ci riguardavano mute con gli occhi sbarrati dal terrore e dall'incredulità. Erano gli stessi che un'ora prima ci avevano applaudito: noi eravamo gli stessi che un'ora prima, pieni di gioventù e di gioia, avevamo lanciato in nome d'Italia la buona sementa della rinascita nel lavoro e nell'amore. La notizia era corsa. Il popolo di Diecimo era sulla strada: vidi molti piangere, qualcuno s'inginocchiò. L'ottimo, massiccio medico di Valdottavo apprestò le prime cure. Si caricarono i feriti sulle barelle a cavallo e s'avviarono verso Lucca. A metà strada si incontrarono con la vettura della Misericordia (di Lucca) che trasportò i feriti all'ospedale principale. Alcune donne di Diecimo intanto avevano coperto di foglie e di fiori i due poveri morti. Sul camion fu distesa una bandiera tricolore. Il tragico trasporto s'iniziò tra una commozione intensissima...Ci avviammo a testa alta - dopo che il camion fu sparito agli occhi nostri - verso il paese dell'Orrore: ove il dovere, naturalmente, ci chiamava...
Nel testo viene riportata anche la foto dei corpi di Giannini e Degli Innocenti esposti nella sala mortuaria (foto che riporto in questa pagina).
Al racconto di quanto era accaduto sulla via Lodovica e dei momenti drammatici della caduta dei massi sul camion, Carlo Scorza fa seguire l'Orazione pei funerali che si tennero a Lucca il 25 maggio 1921, preceduta dalla foto, fronte/retro, di una medaglia commemorativa, dedicata alla "Madre di Gino Giannini - morto per la Patria - Lucca 22-V-1921, che reca sul fronte il simbolo del "Fascio Lucchese di Combattimento" (vedi foto nelle immagini di questa pagina). Le medaglie commemorative furono consegnate nel corso di una cerimonia tenutasi al "Teatro Pantera" di Lucca, dove Scorza tenne un lungo discorso, riportato sul suo libro "Nostri Morti", con il titolo ESALTAZIONE. E' un testo grondante di retorica dove Carlo Scorza spiega IL RITO che si tiene al Teatro, parla de IL VOTO che viene fatto di fronte a quelle morti, si pone a fianco de I DOLOROSI, padri, fratelli, madri chini sulle bare dei loro congiunti, ripercorre L'AGGUATO, parla de LA TRINITA' SORTA DAL SANGUE di Menichetti, Giannini e Degli Innocenti, prosegue con L'INVOCAZIONE: "Tito Menichetti! Nello Degli Innocenti! Gino Giannini! io chiudo gli occhi e vi vedo. Belli, ardenti, o fratelli miei, fratelli nostri, uniti in purità e in armonia perfetta...e conclude con LA PREGHIERA, che ha una invocazione finale "La Patria avrà per noi gloria e potenza nella giustizia e nella libertà".

Il libro di Carlo Scorza, dal titolo "NOSTRI MORTI" si conclude con l'elenco dei FASCISTI CHE PARTECIPARONO ALLA GITA DI VALDOTTAVO: Nello Degl'Innocenti +,  Gino Giannini +,  Aldo Baralla ferito,  Felice Vallerini ferito,  Aldo Mandoli ferito,  Lorenzo Grossi, Renato Benedetti, Pietro Degl'Innocenti, Luigi Matteucci, Vittorio Tattara, Vittorio Mandoli, Lelio Mandoli, Gino Grazioli, Girolamo Benesti, Elia Giusti, Alfredo Menichetti, Carlo Maraccini, Carlo Scorza.
 

Capitolo 10
 
LA LETTERA ANONIMA CONTRO SCORZA

Tra i documenti che fanno riferimento ai fatti di Valdottavo c'è anche una fotocopia di una lettera anonima che uno dei fascisti più vicini a Scorza avrebbe scritto al Duce. Nel testo l'estensore confessa "di essere stato esuberante e forse qualche volta anche violento, ma sono stato sempre esecutore di ordini di Carlo Scorza". La fotocopia porta delle sigle e dei numeri di protocollo e reca il timbro dell' Istituto Storico della Resistenza di Lucca. Nella lettera l'anonimo estensore sostiene che Carlo Scorza "per mettersi in valore e farsi conoscere organizzò una gita a Valdottavo dopo aver predisposto che....e Ballerini attuale podestà di Pietrasanta quando i camions ritornavano indietro gettassero, facendoli rotolare dalla montagna dei massi di pietra in modo da ostruire la strada e dar modo di sfruttare l'attentato perché poi giovasse, come è avvenuto, al suo piedistallo. La fatalità volle - prosegue la lettera anonima inviata al .Duce - che i massi nel rotolare tardassero  ed avvenne la morte di Giannini e Degli Innocenti e la mutilazione di Baralla....".
La copia dattiloscritta di questa lettera, per la verità, mi lascia assai perplesso circa l’attendibilità, ed anche sul web non trovo conferme autorevoli.
Di questa lettera parla nel suo libro anche il prof. Claudio Ferri (vedi capitolo 11).


Capitolo 11

UNA RICOSTRUZIONE DEL PROF. CLAUDIO FERRI

Anche il prof. Claudio Ferri, di Valdottavo, personaggio molto attivo nella vita culturale lucchese, con al suo attivo molte pubblicazioni specialistiche di storia antica, ha trattato l'argomento circa (come lo stesso li definisce) "i fatti criminali del 22 maggio 1921 a Valdottavo". Lo ha fatto in suo libro dal titolo "Fra Lucca e Borgo a Mozzano: Valdottavo dalle origini ai giorni nostri", pubblicato nell'aprile 2005 per i tipi della Tipografia Tommasi di Lucca (libro che mi dette l'opportunità di polemizzare con l'autore, garbatamente; per come aveva trattato, in quel testo, l'argomento dell'acquisto e della ristrutturazione del Teatro Colombo di Valdottavo, che come Sindaco avevo fortemente voluto, riuscendo a realizzarle negli anni dei miei mandati di Sindaco del Comune di Borgo a Mozzano (1995/2004). Il prof. Ferri, oltreché storico, è stato anche un personaggio politico molto attivo nel Partito Repubblicano (PRI). Dopo il crollo della prima repubblica, ha partecipato come candidato della mia lista (Noi con Voi) alle elezioni comunali del 1995, risultando eletto nel consiglio comunale, in cui ricoprì l’incarico di capogruppo della maggioranza. In quegli anni si avvicinò a Forza Italia e fu per me un buon collaboratore. Non avendolo ricandidato alle elezioni per il mio secondo mandato, i nostri rapporti peggiorarono un pò e ci perdemmo un di vista...politicamente parlando. 
Nel libro citato il Ferri scrive che "Fra il 1919 e il 1921 si sviluppò fiorente anche a Valdottavo il Partito Socialista e, dopo il congresso di Livorno del gennaio 1921, anche il Partito Comunista, che si ispirava al Partito Bolscevico di Lenin. Intanto, dopo il 1919, si era sviluppato anche a Lucca e anche da noi il nuovo Partito Fascista, fondato a Milano da Benito Mussolini il 23 marzo 1919. A causa della crisi economica del dopo guerra le lotte sociali sia a Lucca che in tutto il nostro territorio andarono sempre aumentando, con l'effetto di un sempre maggior numero di scioperi dei lavoratori da un lato e di una sempre maggiore resistenza della Confindustria e della Confagricoltura che andarono sempre più finanziando le violenze delle bande fasciste...In tale periodo a Lucca venne emergendo in particolare - scrive ancora il Ferri - la figura del più violento e meno scrupolosi dei personaggi fascisti, Carlo Scorza, che riuscì a dirigere il Partito Fascista fino agli anni trenta. Fu in questo clima che maturarono i fatti criminali del 22 maggio 1921 a Valdottavo". Ferri aggiunge che su questo argomento molti hanno scritto ma nessuno è riuscito a fare luce piena sui veri colpevoli dei crimini, come non è mai stata fatta una revisione del processo che condannò "a pene elevatissime tre persone chiaramente innocenti di Valdottavo, colpevoli solo - scrive il Ferri - di essere socialisti e comunisti". Il Ferri, nel riferire dei fatti accaduti, si rifà ad un articolo del Prof. Umberto Sereni (che è stato Sindaco di Barga) ed a un suo articolo intitolato "Il Fascismo nell'isola dell'antimodernità - Il caso di Lucca". Al resoconto dei fatti che troviamo già in altre parti di questo mio testo, il Ferri e il Sereni aggiungono che "la domenica pomeriggio del 22 maggio 1921 i fascisti locali, tra cui primeggiarono subito Silvio Mezzetti, detto “il Tato”, e Alessandro Mezzetti, detto più tardi, per la sua carica, “il centurione”, organizzarono al Teatro Colombo una manifestazione per la benedizione dei gagliardetti fascisti. In teatro - scrive il Ferri - si affollarono in molti, anche se la maggioranza forse solo per curiosità, e fra la gente, ricordano i testimoni, era presente anche il Pievano di Valdottavo, don Adolfo Pellegrini il quale, siccome non voleva accettare la richiesta dei fascisti di benedire i loro gagliardetti, fu costretto a farlo con la violenza, dopo che i fascisti lo ebbero schiaffeggiato e minacciato in pubblico". (1) Il Ferri riferisce che all'assemblea erano presenti anche i tre valdottavini che poi "furono ingiustamente accusati del crimine avvenuto dopo la fine dell'assemblea" (Cesare Della Nina, Amedeo Ramacciotti e Achille Giannarini). La presenza dei tre, al Ferri, l'avrebbe confermata lo stesso capo fascista Silvio Mezzetti, il quale avrebbe anche riferito che gli stessi avevano lasciato l'assemblea "solo un pò prima che finisse". Prosegue il Ferri: "Il fattaccio fu questo: dopo la fine dell'assemblea i fascisti venuti da Lucca con un camion vi risalirono subito per tornare velocemente a Lucca. Solo che arrivati alle Coste di Rivangaio, dovettero rallentare e quasi fermarsi perché alcuni massi erano già stati fatti cadere sopra il fondo stradale per ostacolare il passaggio del camion sulla Lodovica. Allora improvvisamente altri massi furono fatti cadere sul camion dalla cima del monte, anche se forse, pensa il Sereni, senza una vera intenzione di uccidere; e invece questi massi uccisero sul colpo due giovani fascisti, appartenenti a due famiglie importanti di Lucca. La sera stessa, aggiunge il Sereni, fu ucciso, non si è mai saputo da chi, un certo Porciani, che abitava nel casello del Piaggione, posto di fronte al monte dove erano caduti i massi omicidi “per aver visto rotolare i massi dal casello ferroviario del Piaggione e per aver visto le persone che li avevano lanciati” .(2) Dell'omicidio dei due fascisti lucchesi furono incolpati quasi subito - continua il Ferri nel suo libro - tre abitanti di Valdottavo, dopo che, a partire dalla sera stessa dei gravi crimini, furono arrestati quasi tutti i socialisti di Valdottavo, accusati di aver organizzato la strage". Il Ferri aggiunge un racconto del 2004 fatto al professore da Anna Della Nina, figlia di Cesare, nel quale afferma che il padre Cesare era stato uno dei primi delegati socialisti al congresso di Livorno del gennaio 1921 e che il padre, dopo essere stato presente al teatro Colombo alla manifestazione fascista, insieme al figlio Avo di 2 anni, si recò all'osteria delle Seimiglia, dove lasciò "momentaneamente il figlioletto Avo" per recarsi "col secchio ad innaffiare l'orto". La stessa Anna Della Nina riferì al prof. Ferri che anche Amadeo Ramacciotti, dopo aver lasciato il teatro, andò a Canuciori a girare il fieno. Sempre Anna riferì al Ferri che nessuno seppe dove era andato il Giannarini. Il Ferri nel suo libro racconta altri particolari che gli furono riferiti da Anna della Nina sullo svolgimento del processo e sul fatto che, quando il marito era in carcere, sua madre Nonzia fu "continuamente vessata e perseguitata dai capi fascisti più facinorosi di Valdottavo".  Il Ferri, sempre riprendendo le tesi espresse dal prof. Sereni, cita il mancato passaggio e sosta, nel 1930, di Mussolini al monumento eretto sul luogo dell'eccidio e indica come "esecutori diretti del lancio dei massi i fascisti Micheli e Ballarini", mentre Carlo Scorza (che era a bordo del camion ndr) sarebbe stato "il promotore dell'omicidio". Si pensi che il Ballarini era di Pietrasanta, città di cui sarebbe divenuto Podestà e il Michelini di Lucca. Lo stesso Ferri, rifacendosi alla tesi del Sereni, ritiene che il casellante Esmeraldo Porciani sia stato ucciso, la sera stessa del 22 maggio, “per aver visto rotolare i massi dal casello ferroviario del Piaggione e per aver visto le persone che li avevano lanciati”.(2) A suffragare la tesi del Sereni arriva “un documento esistente nell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza di Lucca. Si tratta di una lettera anonima, indirizzata a Mussolini in persona da uno che dice di essere uno degli assassini del Porciani, il cui omicidio, a detta di questo anonimo accusatore, gli sarebbe stato commissionato proprio da Carlo Scorza in persona. In tale lettera – continua il Ferri – egli ci dice che a predisporre l’attentato al camion con i fascisti provenienti da Valdottavo fu Scorza medesimo, che aveva fatto un sopralluogo sul posto, incaricando Michelini e Ballarini, podestà di Pietrasanta, di far rotolare i massi quanto stava per passare il camion…dando la copa della caduta massi a dei socialisti di Valdottavo. Purtroppo, aggiunge l’anonimo, i massi colpirono proprio il camion e uccisero di fascisti lucchesi…”. A fronte del contenuto di questa lettera anonima conservata dall’Istituto Storico della Resistenza mi preme ricordare che, a bordo del camion colpito, c’era lo stesso Carlo Scorza. Interessante, a mio giudizio, per confermare anche in questo caso la tesi di “100 anni di verità controverse”, è il ragionamento che lo stesso Claudio ferri fa in ordine alla mancata revisione del processo di condanna dei tre valdottavini (Giannarini, Ramacciotti e Della Nina). Scrive dunque il Ferri: “Come mai però, stando così le cose e ritenendo tutti che nel 1921 siano stati condannati ingiustamente e consapevolmente tre innocenti, nessuno ha mai chiesto la revisione del processo dopo il 1945? Eppure fino al 1947 – continua il Ferri – fu Ministro della Giustizia Palmiro Togliatti, il capo e Segretario Generale del Partito Comunista Italiano, che avrebbe dovuto avere interesse a riabilitare il nome di lavoratori socialisti e comunisti sicuramente innocenti. Invece nulla si mosse, neppure un indulto…. Tutti e tre scontarono fino all’ultimo giorno la pena inflitta dal tribunale e il Giannarini morì addirittura durante l’ergastolo” (nel carcere di Montelupo Fiorentino). Secondo il Ferri il PCI preferiva “più avere dei martiri da compiangere e da esaltare”, anche se poi credo che non ci sia stata verso Ramacciotti e Della Nina, rientrati dal carcere presso le proprie abitazioni, né compiangimento né esaltazione, ma solo oblio e rimozione del passato….
 

Note: 1) L’episodio riferito dal Ferri non avvenne nella cerimonia di inaugurazione del Fascio di Valdottavo del 22 maggio 1921. L’episodio dello schiaffeggiamento del Pievano di Valdottavo don Adolfo Pellegrini, secondo Carlo Rastrelli, biografo di Carlo Scorsa, avvenne nel maggio 1928, giorno della cerimonia in ricordo dei caduti del 1921, perché il sacerdote si rifiutò “di benedire i gagliardetti dei Fasci Giovanili di Valdottavo” (pag. 58 del libro “Carlo Scorza L’ultimo gerarca” – Mursia, 2010).
2) Il casellante Esmeraldo Porciani, come riferisce lo stesso Nicola Laganà, non fu aggredito e ucciso nella sera del 22 maggio, ma nella notte tra il 24 e il 25 presso il casello ferroviario di Saltocchio, dove aveva la sua residenza.
 
Capitolo 12

LA DISTRUZIONE DEL MONUMENTO AI "MARTIRI DI VALDOTTAVO" IN UNA TESTIMONIANZA DI SILVANO ZANARELLI

L'immagine di questa pagina è il monumento ai "martiri di Valdottavo", costruito nel luogo in cui morirono Giannini e Degli Innocenti, travolti dai massi caduti dalla montagna. Come ci ricorda il Laganà, nel suo scritto citato in queste pagine, il 31 maggio 1925 ci fu a Lucca una grande cerimonia per l'inaugurazione, nel cimitero urbano della città, del monumento a Giannini e Degli Innocenti, progettato dallo scultore lucchese Francesco Petroni. Nel 1926 sul luogo dell'attentato, a Valdottavo lungo la strada Lodovica, fu posta una lapide in marmo che, successivamente, fu affiancata da colonne con i fasci.
Qualche giorno dopo il passaggio del fronte, siamo ai primi di ottobre del 1944, il monumento fu distrutto con delle cariche di esplosivo. Lo racconta Silvano Zanarelli, pittore e scultore valdottavino, mio amico carissimo, in una testimonianza (pagg. 55 e 56) riportata sul volume "Saggi e Ricerche n. 19" dell'Accademia Lucchese, dal titolo "SILVIO FERRI 20 LUGLIO - 27 SETTEMBRE 1944 - Come la lingua può scongiurare una strage", Edizioni ETS-Pisa 2009. Scrive dunque lo Zanarelli: "Qualche giorno dopo il passaggio del fronte, mi trovai nei pressi del monumento ai Martiri Fascisti in fondo al monte della Ripalta. Mentre ero lì. arrivarono alcuni partigiani. Questi fecero saltare il monumento eretto in memoria dei Martiri con dell'esplosivo". Nella stessa testimonianza Silvano Zanarelli aggiunge un particolare importante: "Al loro seguito c'erano alcuni ex squadristi di Valdottavo contro i quali erano particolarmente inferociti negli anni del regime fascista. Tutto quello che doveva essere una vendetta, si fermò all'affissione di una medaglia di cartone al collo (degli ex squadristi) e allo sgombero della strada dalle macerie causate dalla distruzione del monumento stesso, poi li rimandarono a casa senza fargli altro".
Il luogo dove venne realizzato il monumento è ancora ben visibile. Non ci sono più le due grandi colonne di marmo ma resta la grande nicchia scavata nel costone di pietra, lungo la via Lodovica,  a circa 250 metri dal ponte della Celetra, in direzione Lucca, sul percorso del camion su cui si trovavano i fascisti, reduci dalla manifestazione di Valdottavo. La nicchia ha un fronte strada di circa cinque metri, ad un altezza di circa due metri dall'attuale selciato stradale. 
 

Capitolo 13

GLI “ANTIFASCISTI LUCCHESI NELLE CARTE DEL CASELLARIO POLITICO CENTRALE”.
Di recente ho trovato un libro interessante, di cui riporto il titolo nell’intestazione di questo capitolo, i cui autori sono Gianluca Fulvetti e Andrea Ventura. Il libro è uscito nel settembre 2018  per i tipi della Maria Pacini Fazzi Editore di Lucca. Tra gli antifascisti di cui è stata trovata traccia nel “Casellario Politico Centrale” ci sono anche due dei tre accusati per l’attentato di Valdottavo del 22 maggio 1921: si tratta di Cesare Della Nina e di Amedeo Ramacciotti, non c’è notizia invece del terzo accusato, Achille Giannarini, condannato all’ergastolo e morto durante la detenzione.
Una prima scheda riguarda Della Nina, Cesare e Tomei, Annunziata (moglie). La scheda riporta il racconto dell’episodio che provocò la morte di due fascisti e il ferimento di altri che erano a bordo del camion colpito dai massi. “La sera stessa del 22 maggio, le guardie regie e le camicie nere battono la zona di Valdottavo e Ponte a Moriano, dove arrestano e picchiano decine di persone. In paese si dice che il casellante ferroviario Esmeraldo Porciani abbia visto alcuni fascisti armeggiare intorno ai due pietroni lanciati contro l’autocarro. Si diffonde così la notizia che Scorza abbia ordito l’attentato per giustificare una repressione allargata di tutti gli antifascisti della “zona rossa del Serchio. La notte del 24 maggio alcuni fascisti lucchesi uccidono Porciani davanti agli occi attoniti della moglie. Per il duplice omicidio Degli Innocenti-Giannini sono imputati 36 socialisti, comunisti e anarchici residenti tra Valdottavo, Saltocchio e Ponte a Moriano. In seguito ad un processo contrassegnato da gravi irregolarità Corte d’Assise di Lucca condanna Della Nina a 17 anni, Giuseppe Amedeo Ramacciotti a 30 anni e  Achille Giannarini all’ergastolo”. La scheda prosegue specificando la data di nascita che è il 19 aprile 1895 e la residenza a Valdottavo. “Fin da giovane ha manifestato idee socialiste ed è ritenuto un “uomo d’azione” capace di fare propaganda, un “individuo di carattere chiuso, molto intelligente e scaltro. Coniugato con T, nel 1919 è diventato padre di Avo. Nel dopoguerra partecipa alle lotte sindacali e politiche e, in seguito all’emersione dello squadrismo fascista, è un convinto antifascista. Il 22 dicembre 1922 – continua la scheda – viene dichiarato colpevole. Un testimone lo avrebbe notato, in compagnia di Ramacciotti e Giannarini, nei pressi del Monte Elto pochi minuti prima che i massi rotolino contro gli squadristi. Arrestato nel maggio del 1921 e rinchiuso nel carcere di San Giorgio (Lucca), è trasferito a Castelfranco nell’Emilia (Bo). Le comunicazioni con i familiari – prosegue la scheda – sono difficili, ma moglie e figlio non restano soli: gli amici e i compagni di DN. Racolgono soldi, medicinali, indumenti e generi alimentari per quella che è considerato una vittima di un’ingiustizia politica. La solidarietà, inizialmente spontanea, avrebbe poi trovato nelle strutture del Soccorso Rosso internazionale e del Comitato pro vittime politiche delle importanti sponde organizzative. La moglie T. (Tomei Annunziata) rimase a Valdottavo a lavorare nei campi come mezzadra e, per arrotondare, nelle osterie di Lucca come cameriera. Nata il 10 aprile 1895 nella stessa frazione in cui risiede, viene sorvegliata dalla polizia non in quanto moglie di un condannato per dlitto politico, ma perché riceve corrispondenza e sostegno economico da numerosi antifascisti residenti in Italia e all’estero. Ad esempio, nel marzo 1929 le viene recapitata una lettera proveniente da Marsiglia contenente delle banconote: la mittente è Elisa Lenzi, moglie del “pericoloso” anarchico Gino Bagni. T., che prima del processo al marito “professava […] idee sovversive”, decide però di interrompere ogni rapporto con l’opposizione al regime e, proprio sul finire degli anni Venti, non accetta più alcuna assistenza dai “rossi”. Dopo più di 11 anni di carcere, DN. Beneficia dell’amnistia del Decennale  e il 14 novembre 1932 torna a Valdottavo in località “Capanne”, dove riprende la vita faticosa del mezzadro con T., il figlio e i genitori. Sottoposto a libertà vigilata, conduce da quel momento una vita molto ritirata, dimostrando “attaccamento al lavoro e alla famiglia”. DN. – continua la scheda – “pur serbando le sue idee”, non è più segnalato per alcuna attività politica di rilievo. In piena guerra e perfino nei giorni convulsi successivi all’8 settembre (1943) continua ad essere pedinato e sorvegliato dalla polizia”.
Termina così la scheda redatta da Andrea Ventura, uno degli autori del libro.
Cesare Della Nina è morto a Valdottavo il 23 luglio 1974. Anche per le sue vicende tragiche si è preferito il “passato rimosso”.

Una seconda scheda riguarda Ramacciotti, Amedeo. La scheda spiega in premessa che “Tra l’età giolittiana, la grande guerra e primo dopoguerra numerosi lavoratori della Media Val di Serchio trovano nell’associazionismo socialista e anarchico lo strumento per conseguire un’emancipazione individuale e collettiva”. Anche il Ramacciotti, nato il 10 marzo 1899 a Valdotavo è uno di questi giovani. “Segnalato come “socialista” e poi come “comunista”, ha lavorato per anni come contadino e carraio  e fa parte di quel temuto antifascismo contro cui si scatena la violenza squadrista di Carlo Scorza. Arrestato per i “fatti di Valdottavo”, viene condannato a 30 anni reclusione e a 10 anni di libertà vigilata. In carcere R. riceve il sostentamento economico e morale dei compagni rimasti in libertà e le autorità provano a isolarlo trasferendolo in diverse strutture penitenziarie: da Lucca a Porto Santo Stefano (gr), da Nisida (Na) a Volterra (Pi).Negli anni di prigionia, durante i quali subisce ripetute violenze, mantiene i contatti epistolari con le cugine Elena e Amalia Melli, trovando in loro “l’affetto puro e spontaneo e non spinto da lurida convenienza”. Ancora il 7 gennaio 1934 scrive alle due donne: “splende oggi in me più limpida luce e spero che il 1934 possa  (nonsolo per me) ma (per) tutti coloro che soffrono per varie ragioni…essere questo l’anno che conduce al giusto affetto e lenire tante e tante sofferenze oppresse da mano crudeli. L’amare, l’amare…oh quanto è bello amarci: eppure non sono ancora troppi i ribelli dell’affetto reciproco”. Due anni e mezzo più tardi i suoi avvocati chiedono l’amnistia; il prefetto di Lucca scrive al MI che la sua scarcerazione avrebbe prodotto un’indignazione pubblica, e sarebbe stata accolta “dalla massa fascista […] con vivo disappunto essendo ancora vivo in tutti il ricordo dell’eccidio di Valdottavo che preparato e condotto a termine con inaudita ferocia e ove trovarono la morte due giovani fascisti. Nonostante quindi la buona condotta e il perdono delle parti lese, il funzionario esprime “parere contrario”. L’atto di clemenza giunge però ugualmente, firmato dal Sovrano nel magio 1937. Dopo 16 anni di carere, R. torna tra le valli lucchesi a lavorare come colono: si stabilisce a Domazzano (Borgo a Mozzano), presso la casa del fratello Graziano, assieme al figlio Amildo. La memoria popolare narra le minacce, i pestaggi, le intimidazioni a cui viene sottoposto una volta rientrato a casa. Il tentacolare apparato repressivo del regime avrebbe attentamente sorvegliato R: e tutti i suoi familiari fino al settembre del 1943.
Termina così anche questa scheda redatta da Andrea Ventura.
Amedeo Ramacciotti è morto a Borgo a Mozzano il 30 maggio 1969. L’oblio della storia ha toccato anche le sue tristi vicende.
 

Capitolo 14

“L’UOMO SENZA SORRISO”, il recente romanzo di Roberto Andreuccetti

L’ amico e scrittore Roberto Andreuccetti di Valdottavo ha recentemente dato alle stampe un nuovo romanzo, il terzo, ambientato anche questo, come i precedenti, nella Valle d’Ottavo. La storia si svolge nei difficili anni del primo dopoguerra, che vanno dal 1919 al 1922. Andreuccetti ricorda nella sua prefazione che “nel romanzo si parla di avvenimenti realmente accaduti, che suscitarono una vasta eco, a Valdottavo e nei centri della media valle del Serchio. Nel descrivere quei fatti – aggiunge l’autore - ho cercato di rimanere fedele alle cronache dell’epoca e alle ricostruzioni date dagli storici. Mi sono avvalso anche di testimonianze di anziani del luogo fra i quali mia nonna Fulvia”. Tra i fatti reali e di fantasia che l’autore riporta nel romanzo, c’è anche l’attentato al camion di fascisti del 22 maggio 1921, che Roberto Andreuccetti descrive così: “La primavera del 1921 vide un incremento di fatti delittuosi anche nella piana del Serchio fra i quali l’uccisione dell’ex ufficiale pisano Tito Menichetti a Ponte a Moriano, l’agguato a un camion di fascisti di ritorno da Valdottavo, dove avevano appena inaugurato una loro sede, che causò due morti ed una quindicina di feriti e l’assassinio del capostazione di Piaggione Esmeraldo Porciani”. Nel testo poi Andreuccetti racconta con dovizia di particolari le fasi dell’attentato , compiuto da “un gruppo di uomini” che stavano sul monte dell’Elto”. Quegli uomini – secondo Roberto Andreuccetti – avevano preparato un piano che forse non intendeva essere criminoso, ma che purtroppo lo divenne. Il dettagliato racconto del romanzo lascia ancora aperte, dopo 100 anni, le varie letture che vengono date a seconda della posizione ideologica o dell’appartenenza politica. E così se per coloro che simpatizzano per i fascismo delle origini, l’attentato è da attribuirsi agli avversari, comunisti o socialisti che fossero, mentre, per gli antifascisti, l’attentato è una macchinazione ordita dai fascisti stessi, per incolpare gli avversari. Anche Roberto Andreuccetti, nel suo romanzo, sostanzialmente non riesce a distaccarsi da questa tesi. E così i numerosi episodi di violenza citati nel romanzo, non so se veri o di fantasia, oltre all’attentato del 22 maggio, vengono attribuiti agli appartenenti al Partito Fascista, che sono sempre e comunque responsabili delle violenze: quando agiscono contro gli antifascisti e quando ordiscono atti a loro danno per incolpare gli avversari.
 

Capitolo 15

“QUANDO CANTA LA CIVETTA”: UN LIBRO DI TULLIO BIANCHINI RACCONTA “I FATTI DI VALDOTTAVO” DEL 1921

Il professor Tullio Bianchini, di Valdottavo, che ho conosciuto come mio Preside all’ Istituto Magistrale “Paladini” di Lucca, nel 1987 pubblicò un piccolo libro dal titolo “Quando canta la civetta: storie della campagna lucchese fra sogno e realtà”. Nel “profilo dell’autore”, l’amico che lo ha redatto, definisce “Tullio Bianchini uomo di cultura non comune”, che “aveva conservato incontaminate per tutta la vita due doti essenziali: la bontà e l’attaccamento alle cose semplici”; e ancora lo definisce “innamorato del suo paese, rispettoso delle tradizioni contadine della sua gente”. Nel libro, dove sono raccolti circa sessanta racconti sulla vita di Valdottavo, ce n’è uno intitolato “I fascisti”, dove l’autore ricorda anche l’episodio del 22 maggio 1921. Il Bianchini, che non era certo tenero verso il regime, scrive testualmente: “Una domenica di maggio vennero come al solito da Lucca su un camio scoperto con a capo Scorza: ci fu il solito discorso in teatro, il corteo e poi i fascisti ripartirono, ma quando arrivarono dietro le Coste, dalla Ripalta gli tirarono giù de’ grottoni di quintale e uno picchiò sul camio e ammazzò du’ fascisti. Fu la fine del mondo per il paese: i loro compagni si scatenarono come ave’ stuzzicato un bugno di lape arrabbiate; per tutta la sera e per tutta la notte ci fu un via vai di fascisti e poi di carabinieri. Se la presero con sette o otto operai che lavoravan fuori paese e dicevano fossero scritti alla Camera del Lavoro, poi coi loro parenti e amici: insomma fu una nottata di manganellate e di arresti. Veramente – scrive ancora Tullio Bianchini – la cosa era stata brutta e anche il paese ci restò male, ma la maggior parte dei paesani, specialmente quelli che conoscevano bene il posto, dicevano che i sassi l’avevan tirati solo per mettergli paura in modo che non tornassero più a spadroneggià per il paese coi loro cortei e coi loro canti. Certo a pensacci bene pareva proprio impossibile che avesser tirato giù que’ macigni con l’intensione di ammazzà la gente. Dietro le Coste il monte della Ripalta è tutta una lezza senza alberi fino alla strada e subito sotto c’è il fiume. Ora di cima al monte dov’eran quelli che tiravan giù i sassi, la strada si vede fino al ponte della Céletra, poi c’è la curva e di lì a dove morirono i fascisti c’è per lo meno un quattrocento metri e così non si vede più nulla; ora come potevano sapè quando il camio era proprio a tiro? Sganciaro i sassi così a occhio, per mette’ paura, perché sarebbe stato proprio un caso picchiarci dentro. Quasi tutti infatti andarono a finì in fiume al di là della strada, solo uno che picchiò in palone della luce a metà costa, perse l’impeto e andò a finire sul camio. Fu la disgrazia più grossa del paese; – scrive ancora il Bianchini – ci applicaron la nomea di comunisti, e allora suonava offesa come di delinquenti, di criminali; que’ du’ morti divennero i Martiri di Valdottavo e questo si trovava scritto su i giornali anche dopo anni; lo scrissero perfino su una targa di marmo sulla cantonata di una piazza di Lucca. Molti in paese per un passà da sovversivi si scrissero al Fascio…


Capitolo 16

CONCLUSIONI

Dopo tutto quanto ho riportato nei capitoli precedenti non voglio sottrarmi dal tentare alcune conclusioni, ben sapendo che cento anni non sono stati sufficienti per raggiungere una verità condivisa…

Le indagini dei Carabinieri Reali e i racconti a caldo mi fanno ritenere assai improbabile che Scorza possa aver ordito una colossale mistificazione, come quella di organizzare  l’attentato criminale per dare colpa agli antifascisti locali. Arrivando addirittura a rischiare la vita, visto che lo stesso Scorza era a bordo del camion colpito dai massi, rimanendo ferito nell’attentato.

L’ ipotesi più plausibile in cui diversi si ritrovano è che un gruppo di antifascisti della Valle d’Ottavo abbia voluto reagire alla manifestazione di costituzione del Fascio, dando una lezione ai fascisti che rientravano a Lucca a bordo del camion. Quella che per i coraggiosi e determinati giovani antifascisti doveva essere solo "una scarica di pietrate", forse per fatalità impreviste, si trasformò in un eccidio, con due giovani vite stroncate e diversi feriti anche gravi. E’ assai improbabile, come si ipotizza in qualche ricostruzione, che dei fascisti provenienti da Lucca siano saliti sul monte, in un territorio a loro sconosciuto, per far rotolare i massi al passaggio del camion dei loro camerati. Su questa tesi si ritrova anche Carlo Rastrelli, autore della prima biografia sul controverso ultimo segretario del Partito Nazionale Fascista (PNF), di cui parlo diffusamente nel Capitolo 6 di questa ricerca. Il Rastrelli, in una intervista del 2010, sostiene anche che nessun valore sul tema può essere attribuito all’indagine condotta nel 1932 dall’on. Ranieri su ordine di Starace, perché finalizzata a distruggere politicamente il ras lucchese.

Nel maggio del 1921 Carlo Scorza non era certo in grado di condizionare le indagini dei Carabinieri Reali o di influenzare la Magistratura come, indubbiamente, per il potere acquisito e per la determinazione del personaggio, potrà fare negli anni seguenti, soprattutto nel primo decennio della salita al potere del partito  fascista.

La domenica 22 maggio 1921 si costituiva a Valdottavo una Sezione del Fascio di Combattimento. Fino a quella data i fascisti avevano come riferimento il Fascio di Borgo a Mozzano, già costituito, di cui era massimo esponente il rag. Francesco Lotti, classe 1896, volontario della prima guerra mondiale, tenente dei bersaglieri, decorato al valor militare, che risulta iscritto al P.N.F. (Sezione di Borgo a Mozzano) dal 1 marzo 1921, come è dimostrato da una sua tessera di iscrizione al partito. Decisioni gravi, come quella di organizzare un finto attentato ai fascisti lucchesi, difficilmente poteva essere presa senza il coinvolgimento della dirigenza del Fascio di Borgo a Mozzano.

Lo stesso Laganà, di cui ho riportato integralmente le tesi "antifasciste" al Capitolo 4, parlando dei funerali delle vittime di Valdottavo, avvenuti il giorno 25 maggio 1921 a Lucca, deve ammettere il grande cordoglio della città, espresso anche dai  giornali locali, sia cattolici che fascisti, che descrissero quasi negli stessi termini l’ “imboscata” (che il Laganà definisce “presunta”) ed il funerale dei due giovani fascisti. Gli oratori usarono termini forti come, per esempio, “barbarie” e “belve umane nascoste fra i cespugli”. I discorsi funebri furono pronunciati dall’on. Augusto Mancini (Unione Democratica Provinciale), che fu in seguito una bandiera dell’antifascismo, dal prof. Sbolgi e dallo studente Giannotti dell’Ateneo di Pisa, dal segretario generale dei fasci Umberto Rasella (venuto appositamente da Milano), dal segretario del fascio lucchese Carlo Scorza, dal sindaco di Lucca dott. Pietro Pfanner e dall’operaio Lucchesi.

Sempre lo stesso Laganà, nel capitolo del suo testo dedicato agli “anniversari dell’eccidio”, ricorda come, “il giornale cattolico moderato “L’Idea Popolare”, diretto prima dal prof. Arturo Chelini e poi da Alfredo Pera e che aveva tra i redattori don Pietro Tocchini, parroco di S. Marco e fondatore delle “Leghe Bianche”, in occasione del primo anniversario si occupò dell’avvenimento e ne rievocò le varie fasi, ricalcando la versione “fascista”.

Anche il sostanziale silenzio che c’è stato dalla caduta del regime fascista e dalla fine della seconda guerra mondiale sull’episodio, mi fa pensare che sullo stesso c’è stata sempre tanta incertezza. I Carabinieri Reali, nell'immediatezza delle indagini arrestarono 13 persone e ne indagarono sicuramente altre; mentre una retata di arresti fu compiuta anche nella zona di Ponte a Moriano e Saltocchio, che riguardò 14 persone. Le condanne, al processo, però, colpirono tre persone della Valle d’Ottavo: Giannarini Achille, Della Nina Cesare e Ramacciotti Amadeo che furono condannati a varie pene detentive. Uno solo, Achille Giannarini (classe 1890), quello che aveva annunciato, nell'osteria di Ida Bianchini, "una scarica di pietrate" per gli avversari politici, sarà condannato all'ergastolo e morirà durante la detenzione nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino. Cesare della Nina (classe 1895), condannato a 12 anni, tornerà a Valdottavo nel 1932 e lì morirà nel 1974. Amedeo Ramacciotti (classe 1893), condannato a 16 anni, scarcerato nel 1936 rientrerà anch'egli a Valdottavo, dove morirà nel 1969. Queste ultime notizie le ho tratte da un libro del valdottavino prof. Claudio Ferri pubblicato nel 2005 (vedi Capitolo 10) e le date dei decessi le ho controllate presso gli uffici anagrafici del Comune. Ebbene le due persone e le loro famiglie, oltreché gli amministratori e i politici del dopoguerra, come ho detto in premessa, evitarono sempre di parlare dell’episodio del maggio 1921, ma anche di far valere le ragioni dei condannati, come sarebbe stato abbastanza possibile e normale, nei mutati scenari della storia. Il problema della affermazione dell’innocenza dei propri congiunti e del grave torto subito, rimase, sicuramente, molto sentito e vissuto con grande dolore, all’interno delle famiglie. Un ricordo che tuttora brucia e che io rispetto; che ha impedito perfino di avere, in questa ricostruzione, il contributo, da me ricercato, di alcuni discendenti e, perfino, di ottenere una foto (come nel caso del Giannarini), che avrei volentieri fatto uscire dall’oblio della storia.

Ho cercato, quando scrivevo questi appunti, gli ultimi possibili testimoni tra gli anziani di Valdottavo. Sono andato a parlare con Anna Mezzetti, che è una nipote di Achille Giannarini e con Aldo Mezzetti, detto “il Pezzini”, che delle cose “storiche” di Valdottavo si è sempre interessato. Nonostante il cognome queste due persone non hanno vincoli di parentela. Mi hanno confermato i loro ricordi dei fatti del 1921, hanno memoria di quanto si diceva nelle loro famiglie, hanno conoscenza delle divisioni profonde che c’erano in paese tra fascisti e antifascisti e, a cent’anni di distanza dall’episodio, continuano ad essere sostenitori di verità controverse.

Indubbiamente, sull'intera vicenda, pesano i veleni che furono sparsi contro Carlo Scorza con lettere anonime e lettere "autoaccusatorie" dello stesso Scorza, ritrovate anche in anni recenti, su cui in tanti nutrono dubbi. Pesano anche i dubbi che assalirono gli stessi familiari dei due caduti nell'agguato di Valdottavo. Veleni e dubbi che, forse, determinarono il mancato transito del Duce sulla via Lodovica e il mancato omaggio al monumento che ricordava l'eccidio, il giorno in cui Mussolini (era il 15 maggio 1930) si recò a Barga, Fornaci di Barga e Castelvecchio Pascoli. A Borgo a Mozzano si fermò due volte, per un frettoloso saluto alla tanta gente assiepata lungo la strada (al "ponte del diavolo" all'andata e al "ponte pari" al ritorno). Il resoconto di questo passaggio l’ho trovato sul bollettino “Sprazzi di Luce” edito dalla Parrocchia di S. Rocco di Borgo a Mozzano, nel numero di giugno del 1930.

In conclusione penso che, forse, la verità ce la offre il racconto, scritto in dialetto, del professor Tullio Bianchini, che ho riportato per intero al capitolo 15. Il professore, che è stato il mio Preside all’ Istituto Magistrale di Lucca e che di certo non può essere accusato di simpatie verso il fascismo, riporta con schiettezza quello che si diceva nel paese di Valdottavo e che lui stesso, evidentemente, condivideva. Vi invito a rileggerlo con attenzione.

Al di la di queste considerazioni,  l’episodio, dopo cento anni, come ho detto anche in precedenza, continua a rimanere controverso. Le certezze sono date dalle sofferenze che quell’episodio determinò: per le famiglie delle giovani vite stroncate, per coloro che furono segnati da indelebili mutilazioni, per le persone che hanno portato addosso il peso della colpa o del sospetto, soprattutto se non sono riuscite a dimostrare la loro innocenza.  

Gabriele Brunini
Borgo a Mozzano, maggio 2021

 

BIBLIOGRAFIA

Nicola Laganà, I fatti di Valdottavo: Un esempio della strategia della tensione applicata da Carlo Scorza nella Val di Serchio, “Farestoria, Rivista dell' Istituto Storico della Resistenza e dell'età Contemporanea in Provincia di Pistoia, Anno XIII, nn. 2-3, maggio – dicembre, Pistoia 2011.
Carlo Rastrelli, Carlo Scorza L’ultimo Gerarca, Ugo Mursia Editore Spa, Milano 2010.
Chiurco Giorgio Alberto, Storia della rivoluzione fascista, Vallecchi Editore, Firenze 1929.
Pardini Giuseppe, Alle radici del fascismo intransigente. Teoria e prassi politica nel fascismo lucchese dal 1923 al 1934, “Documenti e Studi, Rivista dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Lucca”, nn. 14-15, Lucca 1994.
Pardini Giuseppe, Dalla conquista del potere all’avvento del regime. Vicende politiche del fascismo lucchese dal 1923 al 1934, “Documenti e Studi, Rivista dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Lucca” nn. 14-15, Lucca 1996.
Ferri Claudio, Fra Lucca e Borgo a Mozzano: Valdottavo dalle origini ai giorni nostri, Tipografia Tommasi, Lucca 2005.
Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e arti, Silvio Ferri 20 luglio, 27 Settembre 1944, Come la lingua può scongiurare una strage, Edizioni ETS, Pisa 2009: varie testimonianze.
Comitato Paesano Valdottavo e Scuola Elementare Valdottavo, 27 Settembre 1944 La fine di un incubo, Tipografia Amaducci Borgo a Mozzano 2003: varie testimonianze.
Fulvetti Gianluca e Ventura Andrea, Antifascisti Lucchesi nelle carte del casellario politico centrale, per un dizionario biografico della Provincia di Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 2018.
Giovannini Paolo e Palla Marco, Il fascismo dalle mani sporche, Dittatura, corruzione, affarismo, Editori Laterza, Bari 2019.
Carlo Scorza, Bagliori D’ Epopea, Ristampa integrale della prima ed unica edizione Lucca 1922, Edizioni della Lanterna, marzo 2018.
Bianchini Tullio, Quando canta la civetta, Storia della campagna lucchese tra sogno e realtà, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 1987.
Andreuccetti Roberto, L’uomo senza sorriso, Tralerighe Libri Editore, novembre 2020.

FINE



Commento ulteriore....

Domenica 12 settembre 2021, nel quadro della 2^ edizione del festival sulla Contemporaneità C•ORA Lucca Fest , si è svolto nel Parco Ex Cavallerizza un incontro dal titolo "Fascismo 1921, i fatti di Valdottavo e la canzone degli Arditi", con la partecipazione, come relatori, di Antonio Fanelli e Andrea Ventura. E' stato Andrea Ventura, come Direttore dell'istituto Storico della Resistenza di Lucca, a trattare il tema della serata dedicata al 1921. Inquadrando in quel contesto il fenomeno "nascita ed affermazione del Fascismo" in Italia e parlando del fenomeno a Lucca. 
Per quanto riguarda i fatti di Valdottavo Ventura non ha fatto altro che riprendere le "voci di paese", che attribuivano il lancio dei massi agli stessi squadristi, per dare opportunità a Scorza di affermarsi come capo indiscusso in provincia di Lucca ed anche nella zona di Ponte a Moriano, Piaggione e Valdottavo, dove esistevano due importanti complessi industriali come lo jutificio (Ponte a Moriano) e il cotonificio (Piaggione). Ventura ha legato anche l'uccisione del casellante Erasmo Porciani, ad opera di fascisti lucchesi, ai fatti di Valdottavo, di cui il Porciani sarebbe stato un testimone dal suo casello ferroviario di Saltocchio. L'aggressione al Porciani avvenne nella notte tra il 24 e il 25 maggio. Che il Porciani abbia potuto assistere, da Saltocchio a quanto avveniva sul monte dell'attentato di Valdottavo è assai improbabile: L'abitazione del Porciani era invece assai più prossima al luogo (Ponte Rosso) dove, appena il 25 marzo 1921, era stato ucciso, con un colpo di pistola, il giovane studente pisano Tito Menichetti, che era rimasto a guardia di un camion in avaria, con cui i fascisti avevano raggiunto quel giorno Ponte a Moriano.

Ogni anno, durante il ventennio, l'attentato del 22 maggio 1921 veniva celebrato con particolare solennità, sia sul luogo dell'attentato stesso, lungo la strada Lodovica, sia a Lucca. Nel marzo 2023 mi è stato consegnata una copia dell'invito per le celebrazioni del 31 maggio 1925 che sis svolsero in Piazza Napoleone a Lucca. Tra i presenti risultato: S. E. l'on. Costanzo Ciano,l'on. Roberto Farinacci, Segretario Generale del P.N.F., l'on. Edmondo Rossoni, Segretario Generale Corporazioni Sindacali, oltre, naturalmente, all'on. Carlo Scorza. (L'invito figura nelle immagini di questa pagina).

 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 







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