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L’INUTILE STRAGE DELLA CERTOSA DI FARNETA, NEI "RICORDI DI GUERRA" DI FRA GUIDO MARIA PERCIC.

TESTO IN COSTRUZIONE...

Di Gabriele Brunini


Settembre 1944: nella notte tra il 1 e il 2 settembre i soldati tedeschi  della 16ª SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer, la stessa responsabile delle stragi di Sant’Anna di Stazzema e di Marzabotto, penetrarono nella Certosa di Farneta a Lucca. Il comandante tedesco accusò i monaci di aver accolto sbandati, partigiani, ebrei e tanti altri. Il loro comportamento venne letto dalle SS come una provocazione e tutte le persone  presenti vennero arrestate e condotte prima a Nocchi di Camaiore, poi nel carcere di Massa Carrara. Da qui dodici monaci verranno prelevati e fucilati, il resto condannato alla deportazione. E’ evidente la decisione dei monaci di contravvenire alla regola cistercense e alla crudeltà umana dei nazisti aprendo le porte del loro convento a quanti bussavano in cerca di aiuto, indipendentemente dal credo politico, religioso, perché «fratelli in Cristo». Ma non ci può essere nessuna giustificazione alla pervicace volontà di uccidere che ha caratterizzato i nazisti in ritirata, contraddistinta da una lunga, tragica, scia di sangue. Ancora maggiore perplessità suscita l’irruzione nella Certosa che avviene a poche ore dalla liberazione di Lucca, che si concretizza appena quattro giorni dopo, il 5 settembre.

Nella Certosa, al momento dell’irruzione dei soldati tedeschi c’era anche Alberto Palazzi, nato a Oneta nel 1921, come mio padre di cui era paesano, coetaneo e carissimo amico. Anche per me era una persona cara, con cui ho sempre avuto amicizia e collaborazione, anche nella Misericordia di Borgo a Mozzano.

Nel 2010 Alberto Palazzi mi consegnò due copie di uno scritto, battuto co la macchina da scrivere e stampato a ciclostile, dal titolo “RICORDI DELLA GUERRA – 8 SETTEMBRE 1943 – 25 APRILE 1945”; l’autore è Fra Guido Maria Percic e risulta stampato alla “Certosa di Serra San Bruno nel 1953”; sulla copertina in cartoncino di colore giallo anche un timbro tondo con la scritta “Ex Archivio Cartusiae Spiritus Santi Lucae”. Consegnandomi quelle copie mi disse che l’aveva scritto un suo confratello del periodo in cui era “giovane professo” proprio nella Certosa di Farneta (nel 1944 quando Alberto Palazzi aveva 23 anni). Nel documento il Palazzi è indicato con il nome di Luigi, che aveva scelto per il suo percorso di certosino.

Ho cercato notizie di questo scritto di fra Guido Maria Percic (uno sloveno che nel 1944, venticinquenne, era in Certosa come “Donato” )  sulla rete ma non ho trovato il testo nella sua intierezza; solo uno stralcio e notizie riportate in uno scritto, interessante, del giornalista RAI  Stefano Coletta.

Ho ritenuto quindi interessante riportare per intero lo scritto di Percic, per lo meno per le parti che riguardano l’irruzione dei nazisti in Certosa e le motivazioni.
Il testo di fra Guido Maria Percic,  talvolta scritto in un italiano non perfetto, inizia con una "Introduzione"..

INTRODUZIONE

“Non cade foglia, che Dio non voglia” dice un vecchio proverbio. E con ragione. Così era anche durante questa ultima guerra dappertutto ed anche nella Certosa di Farneta. Occupazione tedesca, un poco di anarchia ovunque, ognuno temeva il suo vicino. Il marcio fascismo spariva sotto l’ ultime spoglie del nazionalsocialismo tedesco. Da un momento all’altro si pensava al prossimo fine della Guerra; in particolar modo, dopo i continui sbarchi degli Alleati. Tutto questo dava un certo coraggio: Il coraggio di nascondere i ricerati politici, militari e civili. E così fecero – scrive Percic – anche i VV.PP. Superiori (Procuratore e Maestro di novizi), non pensando alle ingiuste disposizioni della legge militare “S.S.” tedesca, facendo così una grande imprudenza con grandissimo rischio. D’altra parte, per dissimulare meglio le cose fatte, introducevano a visitare la Certosa, gli ufficiali e soldati stessi della “S.S.”, il presidium della quale si trovava non lontano dalla Certosa. Inoltre sorridevano, scambiando gentili parole e gesti, pensando d’addormentare così la sorveglianza tedesca. E quando hanno constatato la loro illusione, era ormai troppo tardi: era la notte fatale del 1 al 2 settembre 1944, quando le truppe tedesche erano già in ritirata e la loro permanenza in Toscana era agli sgoccioli. Altri otto giorni, e la nostra sorte sarebbe stata ben differente! L’8 settembre (1944, ndr), quando noi eravamo ancora a Carrara, gli Americani  entrarono vittoriosi nella Certosa di Farneta. Il buon Dio – continua Percic – permise tutto questo per i suoi fini, sconosciuti a noi poveri uomini. Il perché lo sapremo soltanto nell’aldilà; all’altra sponda dell’oscuro ponte della morte, che si fa però sempre più vicina e chiara secondo la misura della nostra fede e amore di Dio.

Chi leggerà questi “RICORDI DI GUERRA” – scrive ancora testualmente fra Percic -  sarà certamente sorpreso scorgendo tanti pensieri ed espressioni di puro pessimismo. Sì. Il mio punto di vista di allora: le azioni di Dio, per mezzo degli uomini, giudicate e valutate dall’uomo vecchio. Ma quando, tanto benignamente, Iddio ridusse in frantumi tutti i falsi idoli del mio orgoglioso “io”, allora incominciai a vedere molto diversamente. Dopo tanti anni di paziente lavoro del Divino Artefice, dopo tante martellate e terremoti spirituali e morali…da questi frantumi  - dico – comincia a sorgere l’uomo nuovo, il quale giudica, all’opposto del vecchio, tante miserie e cattiverie umane: vede piuttosto l’azione di Dio anziché il mezzo di Dio si serviva. Il mio “io” sta ora, abbandonato, in un angolo e, nel centro del mio cuore, comincia a prendere assoluto possesso LUI… LUI, che mi ha amato e si è dato completamente per me sulla Croce e si da ogni giorno nel Tabernacolo.

Dopo l’Introduzione fra Guido inizia un dettagliato racconto di cui riporterò le parti più interessanti.

CAP. I - PAG. 1
Dopo l’armistizio dell’8 settembre, anche la Certosa di Farneta (Lucca) era in continuo movimento. Tutto l’anno, durante la notte e, spesso le notti intere, si nascondeva e si murava della roba nelle cantine e nei rifugi. Soltanto durante la giornata apariva tutta calma e tranquilla la nostra vita di Fratelli Certosini. Sentivamo da lontano e, sovente, anche da vicino il rombare degli aeroplani, dei bombardamenti e dei cannoni. Altrimenti l’atmosfera non si moveva, rimaneva in pace, almeno parzialmente la nostra vita quotidiana. Col sopraggiungere, poi,  della notte ricominciava il solito correre, portare qua e là i sacchi di frumento, granone, insomma tutte le cose che i VV.PP. Superiori ci ordinavano di nascondere. Mi ricordo come se fosse oggi – continua fra Percic – che, dopo queste faccende, i nostri cuori – direi meglio: quelli di tutta la Comunità – presentivano qualche disastro, smembramento, rovina. Lo stesso pensavano anche gli operai, domestici e tutto l’altro personale che si ospitava nella Certosa. Da quello che è accaduto dopo s’è visto che il presentimento era tutt’altro che infondato. Invadeva tutti, e ben comprensibile, una paura dei tedeschi, che venivano quasi ogni giorno in Casa. Pretendevano anche che gli si facesse il pane in Certosa, dal Fratello fornaio. Proprio per questa paura tutti i coloni della Certosa di Farneta avevano portato nel recinto tutti i loro animali bovini (74 vacche circa) con i quali stavano anche loro.
Dopo si aggiungevano ai coloni anche una cinquantina di parenti ed amici; i nostri operai: sarto, ortolano, fabbro meccanico, autista; il fratello del Fattore, incaricato dei boschi, il Direttore del Manicomio di Maggiano con i due figli; un colonnello dei partigiani, arrivato pochi giorni prima del disastro; due ebrei (convertiti) padre e figlio. Molti, fra questa gente, venivano e andavano secondo il loro comodo. C’erano inoltre sette soldati italiani, i quali erano con i tedeschi, ed il Procuratore le aveva travestiti co le nostre bluse di lavoro e gli aveva fatto tagliare i capelli; come pure dovevano lavorare con noialtri. C’erano pure diversi giovani, studenti, partigiani e militari, i quali non potevano tornare alle loro case perché erano della bassa Italia, allora occupata già dagli Inglesi o dagli Americani . Circa una ventina di essi abitavano nelle stanze corridoio dei Fratelli; per tutti gli altri si era preparato posto sotto il campanile della Chiesa, nella terrazza che guarda al cimitero. Coloro che non avevano il mangiare in Certosa, avevano fuori di essa, nelle case coloniche, le loro mogli figlie o fidanzate (visto che le donne non potevano entrare nella Certosa, ndr). Il Procuratore aveva sistemato le cose in questa maniera: che le donne o ragazze preparassero loro il pranzo fuori ed, ogni giorno, due Fratelli uscivano a prenderlo alla Fattoria, casa colonica destinata per questo, che distava poco dalla Certosa. Questi due fratelli avevano un carrettino coperto; lo scoprivano quando le donne caricavano i cestini con i piatti ed il mangiare e, subito, si ricopriva. In questo modo – continua il racconto di fra Percic – si procedeva per circa sei mesi, nascostamente, per questa gente, che di giorno, stava celata giocando a carte o discorrendo ognuno dei fatti propri, sotto i portici, corridoi fuori dalle cantine, ecc. ecc. Le notti, invece, uscivano dai nascondigli facendo baccani, corse e simili per il giardino, disturbando parecchio la Comunità. Il P. Procuratore o era con i “plebei” (diciamo così) al giardino o con i caporioni alla Radio-trasmittente collocata nella cella, disabitata, del P.Sottoprocuratore. Allora, infatti, non c’era nessuno che ricoprisse questa carica. Questa, poi, della Radio-Trasmittente – aggiunge fra Percic – era un’altra imprudenza, che io chiamerei piuttosto pazzia. L’impianto dei fili era scopertoe totalmente visibile a chiunque entrasse nel piccolo Chiostrino dei Fratelli. Visibile a tuti, ripeto, e quindi anche ai tedeschi che spesso venivano con la scusa di visitare la Certosa.

CAP. I - PAG. 2
Anzi credo proprio che questa faccenda della Radio-Trasmittente sia sta la più grave causa, o motivo, del barbaro trattamento sofferto per opera dei tedeschi, con le gravissime conseguenze dei massacri e della prigionia. Tutta la prudenza è sempre poca in tempi così pericolosi di guerra (e quale guerra!); a Farneta, così permettendolo Iddio, ne è mancata assai ai Superiori, specialmente al P. procuratore (per il fatto della Radio principalmente) ed al P. Maestro dei Novizi (che trattava troppo confidenzialmente con i tedeschi e nutriva troppa fiducia in loro). Il P.Priore, invece, ignorava molte delle cose che succedevano e non sapeva neppure quante e quali persone si trovassero ancora nascoste in Certosa. Il povero Padre Priore, infatti, ci diceva frequentemente: “Credo che sarò ammazzato per gli altri”. I tedeschi venivano spesso a visitare la Certosa; alcuni di loro due o tre, si confessavano più volte dal P.Maestro (dei Novizi, ndr) il quale era svizzero tedesco e faceva da interprete. Quando il detto Padre era impedito faceva da interprete Fra Gabriele, sloveno di nazionalità. Intanto, allora, nessuno sospettava quale sorpresa ci avrebbero fatto!

CAP. II - PAG. 2
Nel secondo capitolo fra Percic fornisce due notizie assai interessanti. La prima riguarda il possibile ingresso in Certosa delle Clarisse del convento di S.Micheletto di Lucca, che non si realizzò. La seconda riguarda una richiesta, fatta dai tedeschi, di allestire in Certosa una “infermeria” per i soldati tedeschi “infermi e feriti”. Richiesta che, a quanto riferisce il Percic, “fu respinta energicamente” dai VV.PP. Superiori. In quell’occasione i tedeschi intimarono ai frati di non ospitare estranei, ricevendo piena assicurazione che non sarebbe accaduto.

Durante questo tempo di preludio tutto, in Certosa, era agitazione; però la vita quotidiana scorreva assaai tranquillamente. In un primo tempo si pensava che venissero a rifugiarsi in Certosa le monache Clarisse, ad occupare le celle vuote dei Fratelli, sopra la lavanderia; ma questa grande carità non fu realizzata. Dopo i tedeschi domandarono posto per ottanta posti letto per i loro infermi e feriti; questa petizione fu respinta energicamente dai VV.PP.Superiori. Allora, anche i tedeschi intimarono al P.Procuratore questo avviso: “Se noi troveremo qui in Certosa uno solo in più del personale della Comunità, noi faremo quello che vorremo”. Ma il P.Procuratore li assicurò ripetutamente: “Questo è impossibile; noi non vogliamo ingannarvi”. Lo stesso fece anche il P.Maestro. Intanto che con simili espressioni assicuravano così i tedeschi, giudicandoli così ingenui da credere a tali assicurazioni, il P.Procuratore lavorava in senso opposto. Aveva fatto rilasciare dalla Prefettura e dal Comune le Carte di identità per tutti i giovani nascosti in Certosa, come se fossero Fratelli ed appartenessero alla Comunità. Poi li travestì con le bluse da lavoro dei Fratelli e durante il giorno lavoravano nella cucina o nei campi; durante la notte, poi, s’intrattenevano chiacchierando, fumando e scherzando fra loro, alla vista dei tedeschi che circondavano il recinto dalla parte esterna; i quali tedeschi potevano capire benissimo che quelli non erano veri religiosi. Verso la metà di agosto (1944) arrivò una Compagnia di Cavalleria tedesca e s’istallava proprio davanti alla porta della Certosa, sotto i tigli, occupando tutta la strada quasi per mezzo chilometro. Questa Compagnia partì qualche settimana prima del “disastro”. Giorni prima della partenza ci lasciarono prendere tutto il concime stallatico dei cavalli; impiegammo una mattinata intera per trasportarlo nella nostra concimia. Per questo abbiamo visto, tutti questi soldati erano anziani, molti di essi certo passavano i cinquant’anni. Facevano parte della “Wehrmacht” (esercito tedesco) e non delle “S.S.” (Nazisti). Dopo di questi rimasero nelle vicinanze soltanto delle “S.S.. Erano ragazzi dai 16 ai 21 anni, eccetto i loro ufficiali che avevano al massimo da 23 a 30 anni: quelli stessi che hanno perpetrato il massacro e ci hanno portati via. Non mancavano mai in Certosa; e per loro si doveva fare il pane (con farina del nostro grano) tre o quattro volte la settimana, fino all’ultimo giorno. Entravano ed uscivano a loro piacere; perfino un giorno vennero quattro soldatini loro a giocare con le pietruzze, fin sotto le finestre della cucina, dove stavano tre o quattro dei “falsi” fratelli a mondare le patate. Un’altra volta, entrò uno di loro con un colono, e così poteva vedere tutta la brigata dei rifugiati, i quali si trovavano, di solito, vicino al cortile delle stalle, da dove entravano i coloni.

CAP. II – PAG. 3
L’ultimo giorno di agosto (1944) andammo due Fratelli, come al solito, col carretto a prendere il mangiare per rifugiati. Le donne avevano appena tempo per caricare ciascuna il suo cestino coi piatti, che si sentiva urlare dietro la casa colonica (di Antonio Pellicci): “tedeschi!...tedeschi!”.. Ognuna di queste donne voleva nascondersi per prima, e successivamente un via vai, corri qua corri là. Intanto arriva uno solo colla bicicletta, fa finta di passare e guarda il carretto il quale era ancora coperto e ritorna dietro le donne nella casa. Noi coperto tranquillamente il carretto proseguivamo il cammino verso la Certosa. Ma nella Fattoria aspettavano cinque o sei altre signore di più alto rango coi cestini e saluti per i loro cari mariti. La cosa poi quel giorno non andava tanto liscia. Abbiamo avuto appena tempo di scoprire il carretto, ed ecco nuovamente lo stesso tedesco di prima sta arrivando, e le signore corri, fuggi; ed il tedesco dietro di loro in Fattoria. E i signori mariti quel giorno fecero l’astinenza, probabilmente per la prima volta in vita loro.

CAP. III – PAG. 3
Il giorno 1° settembre (1944), fu l’ultimo giorno, prima della catastrofe. La mattina ci comandò il P.Procuratore di andare a Farneta, da due coloni, per aiutare nei terreni della Certosa a cavare le patate. Siccome i coloni (di media età) si trovavano nascosti in Certosa colle vacche, noi altri – 3 veri e 3 “falsi” Fratelli – ci siamo messi a tirare l’aratro, e le donne raccoglievano. A mezzogiorno tornammo a mangiare a Casa; e dopo di nuovo fino alla sera. Dopo la preghiera di Compieta, siamo andati coi sacchi a dividere; e verso le otto, siamo arrivati col carretto carico di patate alla Portineria. Mistero?... Tutto quel giorno spari; i ponticelli d’intorno alla Certosa, per aria; quella sera poi un silenzio strano. Fuori della Portineria, neanche un’anima viva. Soltanto Pietro Pellicci, operaio della  Fattoria, discorreva colla moglie. Lei gli diceva: “Pietro, vieni a casa stasera, ho paura per te”; e lui non voleva. Dopo, fu proprio lui il primo portato ad essere impiccato e mitragliato. Quando siamo stati dentro, ci vengono incontro due dei rifugiati, e ci dicono che poco prima hanno visto uscire un uomo per il canale d’acqua vicino al pollaio…Un’altra volta ci ha preso a tutti noi tre un brivido…Salutando, senza pigliare niente per mangiare, ci avviammo alle nostre celle. Certamente siamo stati tutti e tre, quella notte (“tremenda notte”) dispensati dal Mattutino. Fra Luigi Paolo ed io, abitavamo nel primo piano della foresteria, ed avevamo le celle una presso l’altra. Sotto, nel pianterreno, abitava il Frtello Foresteraio; e sopra, nelle camere sotto il soffitto, una qundicina di rifugiati. Nel nostro corridoioc’erano due, padre e figlio, in una stanza. Gli appartamenti di S.E. il Cardinale (vedi nota 1), erano vuoti, perché lui era già da qualche mese morto in Svizzera. Dormivo molto bene, – conclude questa parte di racconto fra Percic – e non mi sarei svegliato neanche allora, se non fosse venuto Fra Luigi Paolo a svegliarmi dicendo: Fra Guido, alzati! I tedeschi sono in casa”. Guardai l’orologio, erano le 12,45 (mezzanotte e tre quarti, ndr).. Qui devo interrompere “il mio” racconto, per spiegare come ed in che modo sono venuti i tedeschi.

(NOTA 1: Si tratta del Cardinale spagnolo Francisco de Asís Vidal y Barraquer (1868 – 1943) che morì nella Certosa svizzera di La Valsainte, ndr).

Fra Percic inizia il racconto dell’irruzione dei tedeschi in Certosa, precisando che i fatti gli sono stati raccontati “dopo”, da “altri”…

CAP. IV – PAG. 3
A quanto mi hanno raccontato dopo, gli altri, fu così: Volendo entrare quando i Monaci andassero in Chiesa, sono invece entrati, quando (ascoltando ed aspettando al di fuori della Portineria) hanno sentito scendere Fra Michele (Portinaio) dalla sua cella, per andare a caricare le batterie della luce.

PAG. 4
Appena questi (Fra Michele portinaio, ndr) era sotto, davanti al portone, bussarono; e lui ignaro di tutto senza niente sospettare di male, aprì…trovandosi in faccia coi tedeschi. Non era tanto meravigliato, perché tutti i giorni venivano; ma…a quell’ora! Perché? Come?...
Il racconto di fra Percic continua con le notizie che gli sono state riferite nei giorni successivi dai propri confratelli: il padre portinaio Fra michele che è portato fuori dalla porta, insieme a Fra Bruno, il secondo portinaio, che era nel frattempo sceso, tenuti sotto custodia da un tedesco con il mitra puntato. I soldati che presidiano tutte le porte, in chiesa, nel chiostro, nei dormitori, che cominciano la caccia ai Certosini. Il primo ad essere preso il P.Sacrista che andava a suonare il mattutino, poi i Padri e i Fratelli che andavano in chiesa. Fra Percic scrive che il Comandante delle S.S. tedesche veniva dal presidio “stanziato a Nocchi, paesello vicino a Camaiore”. Il Comandante, puntandogli la rivoltella, chiese al P.Priore quanti religiosi formavano la Comunità. “Il P.Priore in principio era un po’ esitante; ma poi alla seconda intimazione, rispose: trentacinque o trentasei. I membri della Comunità furono messi nella così detta “stanza di S.Giuseppe”, mentre la sartoria fu destinata per prigionia al P.Priore e al P.Maestro dei Novizi. Nel suo testo, fra Percic scrive testualmente: “Mentre passavano i VV.Padri e CC.Fratelli condotti dai tedeschi per cortile d’onore, i rifugiati affacciatisi alle finestre dei loro nascondigli, ridevano e scherzavano della Comunità. Ma, presto venne anche l’ora loro.

CAP. V – PAG. 4
Quando i tedeschi furono sicuri che della Comunità non gli sarebbe sfuggito nessuno, almeno di quelli messi sotto custodia, andarono alla caccia degli altri che avevano visti guardare dalle finestre, perché la notte era abbastanza chiara.
A questo punto fra Guido Maria Percic riprende il racconto in prima persona, delle cose che ha visto di persona.

E così – scrive - riprendo “il mio racconto”: vennero anche da me, che ero già preparato all’oratorio della cella. Due soldati, senza bussare, entrano dentro, e…su! Via! (“loss! Marsch!”). Io presentai i miei documenti, parlai in tedesco e domandai cosa desideravano da me. Ma fu tutto inutile; quasi coi calci e forti spinte, mi hanno portato assieme agli altri. “mancano ancora tre della Comunità”, ho pensato fra me, quando cogli occhi bassi, mi salutavano i VV.Padri e CC.Fratelli.

Pag. 5
Ancora oggi – scrive Percic – mi rattrista quel ricordo: che triste spettacolo! Fitti, fitti, attorno le pareti della stanzetta, colle mani nelle maniche, quasi tutta la Comunità; e di più anche il Direttore del Manicomio coi due figli e tre o quattro degli altri, vestiti colle bluse da lavoro, senza cintura, senza cocolla…Silenzio mortale. E la guardia sulla soglia che ci contava continuamente. Tutti i rifugiati borghesi che furono trovati, li ammassavano come “carne da macello” presso la foresteria.

Lo scritto di Percic elenca tutte le angherie che i vari Fratelli debbono subire in quelle ore concitate e le difficoltà di soddisfare perfino le necessità corporali

CAP. VI – PAG. 6
Circa le quattro (mattino) o qualche mezzora più tardiarrivò in Certosa una donna, di età sulla cinquantina. Era venuta a consegnare una lettera indirizzata “Al Sig. Aggiustatore delle macchine da scrivere”, che era, come si è saputo poi dai tedeschi stessi, il Colonnello dei partigiani, ex Colonnello dell’Esercito Italiano. Anche la donna fu trattenuta dai tedeschi e fu poi portata anch’essa a Nocchi, presso Camaiore. I Certosini riescono a celebrare Messa nella chiesa, sempre sorvegliati dai tedeschi. Fra Percic va con un soldato tedesco a prendere le ampolle per la Messa e ci riferisce che quel soldato aveva 17 anni. Poi il Comandante tedesco ordinò a tutti coloro che l’avevano di andare a prendere in cella vestiti borghesi. Lo stesso Comandante, come scrive Percic, iniziò gli interrogatori.

Prosegue il racconto di fra Percic:  Per primo fu interrogato il Direttore del manicomio vedi nota 2): vestito da Padre Certosino, fingeva d’essere Padre Maestro; e i suoi figli, vestiti da Novizi, si fingevano suoi Novizi. Il Comandante gli disse: “Che cosa siete voi?” – il Direttore: “Io sono Padre Maestro”…Il Comandante per seconda volta: “Ditemi! Che cosa siete voi?” – Il Direttore: “Ho già detto; io sono il Padre Maestro, e questi due sono i miei Novizi”.. Allora il Comandante, colla rivoltella in mano, avvicinandosi a lui: “Ditemi la verità! Noi vi conosciamo! Questi due sono i vostri figli!” – Il Direttore: “No! Io sono Padre Maestro di questi due”.. Allora il Comandante gli disse: “Vergognatevi, proprio ora avete ricevuto la santa comunione , e rinnegate i vostri figli! Dite! Questi sono i miei figli!...Noi vi conosciamo molto bene; perfino gli articoli dei giornali scritti contro di noi!...Via!...Andate nella vostra abitazione di questo tempo che noi vi ricercavamo, e vestitevi come conviene a voi!”. Dando un cenno ad uno dei soldati per accompagnarli, sono andati via tutti e tre.

(NOTA 2: Il Direttore è Guglielmo Lippi Francesconi, nato nel 1898, all'epoca direttore e primario dell'ospedale psichiatrico di Maggiano, considerato tra le persone più importanti che si trovavano nella Certosa. Con lui erano i figli Pierluigi e Franco, ndr).

Gli interrogatori proseguirono e venne interrogato anche lo stesso Percic che così racconta quel momento:
Allora io, prendendo un pò di coraggio, domandai al Comandante: “E che colpa, che cos abbiamo noi?”. Lui mi rispose così: “So molto bene che voi altri siete veri Religiosi; però per ora , dovete andare tutti via del vostro convento…Vergogna per la Chiesa!  Perfino sotto gli Altari abbiamo trovato nascoste le posate d’oro e d’argento, e la moneta”…Poi ci mandò tutti e tre alle nostre celle, accompagnati dai soldati, a travestirsi in vestito borghese.

Le varie persone interrogate vengono tutte inviate nelle loro celle a vestirsi con abiti civili. Anche fra Percic che, appena cambiatosi, viene caricato su di un camion coperto, insieme ad altri confratelli certosini. Percic cerca di fare amicizia con un soldato tedesco che parla sloveno. Il soldato gli dice: “Per ora vai in Germania, però presto tornerai, perché la guerra dopo cinque o sei mesi sarà finita”. Il soldato, come riferisce Percic: “Era fervoroso tedesco discendente da una colonia tedesco-austriaca stabilitasi e formatasi in una città chiamata Kocevje, trenta chilometri circa dal confine  croato, nella Slovenia, CARA MIA TERRA PATRIA”.

CAP. VIII - PAG. 8
Il nostro viaggio era terribile – scrive Percic. Eravamo troppi sopra (il camion), più stretti di fiammiferi in scatola. Ogni tanto venivano addosso i soldati, i quali non permettevano che li toccassimo, gridando e minacciando con le pistole. Nel nostro camion, che andava dietro, c’era il P.Priore  e il P.Maestro (dei Novizi).

Sul camion c’era anche un personaggio che Percic definisce “colonnello dei partigiani”, che durante l’irruzione tedesca era stato trovato vestito da certosino. I prigionieri, come scrive ancora Percic, non sapevano dove sarebbero stati portati, poi arrivarono a Nocchi di Camaiore e furono scaricati in un frantoio e messi in un lungo stanzone dove non si trovava nient’altro che un paio di letti a castello. Nel paese di Nocchi c’era il presidio delle S.S. tedesche.
 
All’ingresso dove ci misero noialtri (un’ottantina circa) – scrive Percic - c’era una specie di falegnameria la quale serviva poi come posto di guardia; e allo stesso tempo faceva il servizio a noi per i bisogni piccoli in un angolo sopra la segatura…Il P.Priore quando si è messo a sedere per terra con noi, parlava e ci incoraggiava; e poi pensando che saremmo fucilati, ha impartita l’Assoluzione “in articulo mortis” a tutti insieme. Della Comunità eravamo già in cinque; gli altri erano: operai e coloni della Certosa, travestiti, e rifugiati. Come ho detto sopra, fra tutti insieme eravamo forse circa ottanta.

Dei rifugiati alcuni, forse quindici, come riferisce Percic, erano riusciti a fuggire. Nessuno riusciva a capire cosa si svolgeva alla Certosa, né dove fossero rimasti la maggioranza dei Certosini, Lo stesso P. Priore pensava che gli altri rimasti in Certosa sarebbero stati salvi.

Però la cosa andò a rovescio dei nostri pareri – scrive Percic – ed il P.Priore ammutolì di stupore, quando verso le due e mezzo pomeriggio (del 2 settembre, ndr), si vide arrivare il rimanente della Comunità in spaventevoli condizioni: vestiti borghesi a metà, cappelli di paglia; vestiti o troppo grandi, o troppo stretti, o troppo corti…Così ora era riunita tutta la Comunità; fuori del P.Procuratore  e Fra Agostino (Sztrilich), il quale era – come abbiamo detto – gravemente ammalato.

Fra Agostino (l’ammalato) lo lasciarono in Certosa per custodirla; – scrive fra percic a pagina 9, cap. IX – un po’ per compassione (siccome era tanto ammalato), ed un po’ perché era della stessa nazionalità che il Comandante, “ungherese”.
 

 (continua)





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